Una sovranità di Dio su Gerusalemme "l'incompresa"
Si è riaccesa la disputa per Gerusalemme con l'annuncio, da parte del presidente Trump, del trasferimento dell'ambasciata statunitense da Tel Aviv alla Città Santa. Ripercorriamo le tappe di una storia intricata, anche per non dimenticare la soluzione della sua internazionalizzazione, chiesta ripetutamente e mai attuata.
AMBASCIATA USA A GERUSALEMME: IL SASSO NELLO STAGNO di Stefano Magni
Si è riaccesa la disputa per Gerusalemme, meglio per la rivendicazione esclusiva della sua sovranità musulmana, a motivo della annunciata attuazione da parte del presidente statunitense Donald Trump della decisione del suo paese (vecchia di oltre vent’anni ma sempre dilazionata ogni sei mesi, quindi di fatto accantonata) di trasferire la sede della propria ambasciata da Tel Aviv nella Città Santa. Intenzione annunciata dallo stesso Trump nel corso della sua recente, vittoriosa, campagna elettorale, ma che l’opinione pubblica palestinese e l’Autorità nazionale guidata dal presidente Abu Mazen, così come gran parte del mondo islamico, in particolare le sue rappresentanze istituzionali, ritenevano che restasse congelata, in pratica lettera morta, per le stesse ragioni che l’avevano tenuta congelata per così tanti anni.
Agitando la minaccia di un gravissimo deterioramento del già sconvolto scenario nel Vicino e Medio Oriente, e delle sue inevitabili ripercussioni in tutto l’universo islamico, l’Autorità Nazionale Palestinese ha prontamente reagito, promuovendo tre giornate di “rabbia” da un lato e avvertendo dall’altro i leader dei paesi occidentali (anche papa Francesco) che è ancor più compromesso il processo di pace da essi sempre incoraggiato. Per il mondo islamico, e per quello arabo in special modo, l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme significa il riconoscimento della capitale dello Stato d’Israele da parte della grande nazione americana. Una evidenza inaccettabile. Perché nessun musulmano può nemmeno concepire che “al Quds”, la sua città santa per antonomasia (come vien chiamata e sentita) sia la capitale di uno Stato infedele, come quello ebraico, che non dovrebbe nemmeno esistere su una terra divenuta per la conquista avvenuta nel 630 d.C. “musulmana per sempre”.
Alla luce di questa convinzione (che per coloro che non sono musulmani è, quanto meno, una discutibile presunzione) il 29 novembre 1947 tutti gli undici Stati musulmani allora membri delle Nazioni Unite votarono contro la Risoluzione 181 ovvero contro il piano di spartizione del territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, fino ad allora sotto mandato della Gran Bretagna, tra due nascenti stati, uno ebraico e uno musulmano, e contro la sottrazione della sovranità su Gerusalemme per entrambi con la creazione, per la città e il circostante suo spazio vitale, di un corpus separatum sottoposto a sovranità internazionale. Veniva così eliminata, sulla carta, la ragione di una contesa, fortemente avvertita per motivazioni religiose e palesemente irrisolvibile. Per amor di storia, va ricordato che la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU fu approvata con 33 voti favorevoli e 14 contrari, perché agli undici “no” dei paesi musulmani si unirono quelli di Cuba, Grecia e India. Le astensioni furono 10.
Per motivare la loro persistente avversione alla decisione delle Nazioni Unite, grazie alla quale , il 14 maggio 1948, ovvero allo scadere del Mandato britannico, era stata proclamata la creazione dello Stato di Israele, e stabilita la sua capitale a Tel Aviv, gli Stati arabi del Medio Oriente mossero guerra contro quello ebraico e ne uscirono sconfitti. Così come in altre due guerre: del 1967, nota per la sua durata come quella “dei sei giorni”; e del 1973, ricordata come quella “del Kippur” perché deflagrata proprio il giorno in cui tutti gli ebrei, con il digiuno e la preghiera, chiedono il perdono a Dio; quindi ben lontani dal pensare di essere aggrediti dai vicini. Guerre che portarono al rafforzamento e all’ampliamento del territorio dello Stato ebraico delineato nella Risoluzione dell’Onu. Anni dopo, con i trattati di pace con Egitto e Giordania, Israele ha restituito i loro territori occupati. Ha invece incorporato nel territorio dello Stato le strategiche alture del Golan, sottratte alla Siria, e la parte orientale di Gerusalemme che all’epoca della conquista, nel 1967, era sotto la sovranità della Giordania.
Così unificata, Gerusalemme il 30 luglio 1980 è stata proclamata “capitale eterna” di Israele dal suo parlamento (la Knesset) e come tale viene ogni anno festeggiata nell’esaltazione sia di re Davide, che la elesse come emblematica espressione dell’unità suo popolo, sia di suo figlio Salomone che vi eresse il Tempio ove fu accolta l’Arca dell’Alleanza con Dio, quindi memoriale santissimo della elezione del popolo e luogo privilegiato della sua preghiera. Città di Dio nell’annuncio e testimonianza espressi lungo i secoli da scrittori-profeti che hanno intessuto l’Antico Testamento e nella professione scandita ogni giorno, da millenni, da fedeli ebrei. E Città di Dio per i cristiani perché in essa vi è vissuto, è morto ed è risorto il Messia, Gesù, il figlio di Dio che in essa ha stabilito la Nuova Alleanza con l’uomo. Essi hanno anche ereditato dall’Apocalisse dell’apostolo e teologo Giovanni l’annuncio profetico della Gerusalemme celeste, chiamata così, non con altro toponimo.
Città di Dio, “al Quds”, la santa per antonomasia, anche per i fedeli della religione musulmana i quali, in nome dell’esclusivismo frutto del preteso compimento della rivelazione divina ad opera del profesta Maometto, hanno voluto porre un proprio e definitivo sigillo in essa, proprio sulla Spianata dell’antico Tempio ebraico, trasformando in moschea, al momento della conquista, la chiesa erettavi dai Crociati, chiamandola “el Aqsa” (la lontana) in ricordo dell’atterraggio di Maometto a cavallo della sua giumenta alata Buraq; e pochi anni dopo costruendovi la moschea dalla grande cupola dorata, proprio sulla roccia ove gli ebrei venerano da sempre il sacrificio di Abramo.
Basterebbe la rievocazione di questo straordinario intreccio di fatti e memorie, indelebili nella venerazione dei fedeli delle tre religioni monoteiste, per riconoscere la validità e attualità della soluzione “internazionale” per Gerusalemme, trovata nel 1947 dalle Nazioni Unite. Paradossalmente respinta, ancor oggi, sia da ebrei sia da musulmani e vanamente proposta da cristiani. C’è un documento del 1994 dei Patriarchi e capi delle Chiese cristiane di Terra Santa – ha per titolo Memorandum sul significato di Gerusalemme per i cristiani – che ha tutti i titoli per essere punto di riferimento per ogni approccio di pace. Perché chiama tutte le parti interessate a comprendere ed accettare la natura e il significato profondo di Gerusalemme, "Città di Dio”, della quale “nessuno può appropriarsi in maniera esclusiva”. E c’è da sperare che invece di mantenere la protervia degli animi, di accrescere divisioni e rancori, di fomentare l’accensione di nuove violenze, l’annuncio di Trump serva a far “riscoprire” la strada per giungere a una vera pacificazione. Essa passa dal riconoscimento della “sovranità divina” su “Gerusalemme l’incompresa”.