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MEDIO ORIENTE

L'escalation c'è già: l'Iran è coinvolto nel conflitto contro Israele

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La guerra a Gaza, oggetto della telefonata fra Papa Francesco e Biden, rischia di allungarsi nel tempo. E si sta già allargando ad altre aree calde del Medio Oriente. Milizie sciite pro-Iran entrano in azione in Libano, Siria, Iraq e Yemen anche contro gli Usa. 

Esteri 24_10_2023
Teheran, manifestazione pro-Palestina (con i ritratti di Soleimani)

Il rischio maggiore, per ora, della guerra a Gaza è che si allunghino i tempi e con essi anche le perdite, militari e civili. Ma il rischio più temuto nel mondo è che si allarghi. In realtà, l’escalation non è definibile semplicemente come “rischio”: è già in corso. L’Iran è indirettamente coinvolto nelle operazioni iniziate su fronti secondari, di cui si parla meno, ma dove i morti si contano già a decine, in Libano, Yemen, Siria e Iraq.

Scongiurare l’ulteriore allargamento del conflitto è stato molto probabilmente al centro del colloquio telefonico riservato fra Papa Francesco e il presidente degli Usa Joe Biden, domenica 22 ottobre. Sappiamo poco dei suoi contenuti, se non che è servita a “individuare percorsi di pace”. Biden, il giorno successivo ha parlato di un pieno accordo con il Santo Padre: “Il Papa ed io siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Era molto, molto interessato a ciò che stiamo facendo per alcune delle crisi che stiamo affrontando, in particolare in Israele questa volta”.

La diplomazia a livello mondiale sembra poter fare ben poco in questa fase del conflitto. Quella locale sta ottenendo qualche risultato. Dopo la liberazione, da parte di Hamas, di due cittadine americane Judith e Natalie Shoshanna Raanan (madre e figlia), altri due ostaggi sono stati scambiati con aiuti umanitari al confine con l’Egitto, altre due donne, israeliane: Nurit Cooper e Yocheved Lifshitz, di 80 e 85 anni rispettivamente. Tuttavia un altro tentativo di scambio, negoziato dal Qatar e riguardante ben 50 ostaggi con doppia nazionalità, pare sia fallito, stando a fonti del Wall Street Journal. Hamas chiedeva in cambio una fornitura di carburante e Israele ha rifiutato perché può essere usato anche per scopi militari (per i razzi, tanto per cominciare).

Lo Stato Maggiore israeliano fa sapere che non vi sia alcun nesso fra la presenza di ostaggi a Gaza e il mancato inizio delle operazioni di terra, che gli osservatori già si attendevano la settimana scorsa. Su questo punto non trapela nulla, né ci sono indizi su quando l’offensiva possa iniziare. L’ora X potrebbe scattare mentre questo articolo va online, così come non scattare affatto. Quel che però pare ormai assodato è che la campagna militare di Gaza (che sia solo aerea o anche terrestre) dovrebbe durare molto a lungo.

Il Segretario alla Difesa degli Usa, Lloyd Austin ha citato ad esempio la riconquista di Mosul nel 2017, che segnò la sconfitta dell’Isis in Iraq: occorsero nove mesi per ripulire la città dai jihadisti. A Gaza i membri di Hamas, della Jihad Islamica e delle sigle terroriste minori presenti sul territorio, sono anche più numerosi di quelli dell’Isis di allora e possono avvalersi di una intricata rete di tunnel per nascondersi e muoversi in un conflitto urbano.

Chiaramente, più lunga è la durata del conflitto, più è facile che si estenda anche territorialmente. Ma, appunto: altri fronti sono già aperti, anche se fanno meno notizia.

Ad esempio, gli Stati Uniti hanno sparato i loro primi colpi, il 19 ottobre, nel Mar Rosso. Lo hanno fatto per reagire a un lancio di missili e droni dallo Yemen. Sono stati tutti intercettati dalla batteria anti-missile del cacciatorpediniere Carney. La marina degli Stati Uniti non ha fornito molti dettagli sull’azione, se non che i missili e i droni fossero diretti “verso Nord”, quindi “potenzialmente verso Israele”. I missili sono stati lanciati dalla milizia sciita Houthi, sostenuta dall’Iran.

Sul lato opposto del teatro di conflitto, nel Nord, il Libano è già coinvolto da tre settimane in scontri a fuoco fra Hezbollah (altra emanazione del regime iraniano) e Israele. Per sicurezza, 200mila civili israeliani sono già stati evacuati dall’area. L’aviazione israeliana ha colpito due postazioni della milizia sciita anche ieri, per prevenire un loro lancio di razzi. Inoltre ha lanciato raid in profondità in Siria, colpendo gli aeroporti di Damasco e Aleppo, dove l’Iran sta inviando a Hezbollah armi e rinforzi di miliziani sciiti.  

Altre milizie filo-iraniane in Siria e nel vicino Iraq, invece, hanno aumentato i loro attacchi contro le basi statunitensi nell’ultima settimana. L’ultimo in ordine di tempo è stato il tentativo (fallito) da parte di milizie sciite di colpire l’aeroporto di al Tanf, in Siria.

Per questo motivo, anche ieri, lunedì 23 ottobre, l’amministrazione Biden è tornata ad ammonire Teheran. «Sappiamo che l'obiettivo dell’Iran è quello di mantenere un certo livello di segretezza per negare le sue responsabilità – ha dichiarato John Kirby, del Consiglio di sicurezza nazionale - Ma non glielo permetteremo. Non permetteremo nemmeno che qualsiasi minaccia ai nostri interessi nella regione rimanga incontrastata”.

Secondo fonti del Jerusalem Post, domenica i media iraniani si sono concentrati su altre minacce a Israele e alla regione, criticando il ruolo degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, ventilando la possibilità di nuovi attacchi informatici a Israele ed enfatizzando le divisioni interne allo Stato ebraico sulla futura probabile operazione di terra. Mehdi Hosseini Matin, incaricato d'affari iraniano a Londra, ha affermato che se questa dovesse partire è possibile che gli interessi del Regno Unito vengano colpiti. Lanciando il sasso e nascondendo la mano, ha aggiunto che l’Iran non ha alcun controllo sulle “forze di resistenza” nella regione, che, a suo dire, prenderebbero le proprie decisioni indipendentemente da Teheran. Detto in parole povere: noi vogliamo la pace, ma se qualcuno dei nostri si arrabbia non garantiamo nulla.

In caso di partecipazione diretta o indiretta dell’Iran nel conflitto, comunque, Israele potrebbe rispondere con un attacco alla fonte. Come ha dichiarato Nir Barkat, ministro dell’Economia in un’intervista al britannico Daily Mail: “Taglieremo la testa del serpente a Teheran”.