Emergenza denatalità, eppure la soluzione è così semplice
Centomila nati in meno negli ultimi otto anni, aumento vertiginoso delle donne che non hanno figli, un nuovo record negativo in vista per il 2017. Se si vuole davvero invertire la tendenza bisogna andare alle cause vere: contraccezione, divorzio, aborto, gender e secolarizzazione.
Puntuale ecco che arriva il solito drammatico quadro fornito dall’Istat su “Natalità e fecondità della popolazione” italiana: «In otto anni 100mila nascite in meno», sintetizzano i principali quotidiani. E siccome nel 2016 in Italia sono nati 473.438 bambini (12mila in meno dell’anno precedente), si capisce come l’Italia stia procedendo a tappe forzate verso l’estinzione del suo popolo. Tanto più che la quota di figli nati da coppie italiane è di 373.075. Peraltro nel primo semestre del 2017 si sono già registrate 1.550 nascite in meno rispetto al primo semestre 2016, un calo minore rispetto agli anni precedenti ma pur sempre un segno inequivocabile di una minore propensione a generare nuove vite.
Ci sono altri dati che rendono ancora più grave il dato di fondo: ci dice infatti l’Istat che c’è un calo importante dei primi figli: 227.412 nel 2016 contro i 283.922 nel 2008, un 20% in meno. In parte si spiega con il calo delle donne in età fertile ma in parte anche alla decisione di non avere figli che coinvolge un numero crescente di coppie, soprattutto quelle sposate (che comunque sono sempre di meno). Inoltre delle donne nate nel 1976 ben il 21,8% non avranno figli alla fine del loro ciclo riproduttivo, quota che era dell’11,1% per le donne nate 25 anni prima. Un aumento più che allarmante.
Alla fine però di nuovo c’è ben poco, questa è una tendenza ormai consolidata da ben 45 anni e non si vedono segnali di inversione. Solo da pochi anni i nostri governanti si sono resi conto – e neanche troppo – che la denatalità è un grave problema sociale ed economico, ma continuano imperterriti a dare le spiegazioni sbagliate e a suggerire soluzioni pessime. Oggi quasi più nessuno ha il coraggio di sostenere che lo “sboom demografico” sia positivo, ma adesso gli stessi irresponsabili sostengono che la soluzione stia nell’immigrazione. Una bella scorciatoia per chi evidentemente pensa che le persone siano soltanto numeri, che cultura e condizioni di partenza non contino, e che non ci siano invece esigenze, problemi e costi diversi, legati ad esempio al processo di integrazione. Quanti non perdono occasione per insegnarci che gli immigrati sono persone, evidentemente sono i primi a non capire che cosa essere persone voglia dire.
Bisogna aver chiaro che il rimedio alla denatalità può essere soltanto l’aumento dei tassi di fecondità. Se non si tornerà almeno al livello di sostituzione, che è di 2,1 figli per donna (contro gli 1,34 attuali) le cose potranno solo peggiorare, e in queste condizioni una massiccia immigrazione può solo far esplodere i conflitti sociali.
Ma perché la tendenza si inverta bisogna agire anzitutto sulle cause vere. Un elemento ce lo dà lo stesso rapporto dell’Istat: «Il legame tra natalità e nuzialità è ancora molto forte nel nostro Paese», come del resto è naturale che sia, anche se in altri Paesi non è più così. In Italia nel 2016 il 70% dei figli è nato nel matrimonio. Ma i matrimoni sono molto calati, anche se negli ultimi due anni si registra una lieve ripresa. Fatto sta che nel 2016 i matrimoni sono stati 203.258, poco più della metà dei matrimoni celebrati nel 1970. Per la cronaca in quell’anno i nati furono 906mila, cifra praticamente doppia rispetto al 2016.
Perché un raffronto con il 1970? Perché in Italia è una data spartiacque, grazie all’introduzione proprio quell’anno della legge sul divorzio, poi confermata dal referendum del 1974. È lì che comincia il crollo della natalità: fino a quel momento il tasso di fecondità totale si attestava sui 2,4 figli per donna; da quel momento ecco il crollo, che va di pari passo con diminuzione di matrimoni e aumento di separazioni e divorzi. Basti pensare che nel 1970 c’erano 10.269 separazioni, nel 2016 le separazioni sono schizzate a 84.165, da sommarsi a 54.351 divorzi: un aumento di quasi 14 volte. Si tratta di una vera e propria opera di distruzione della famiglia, con le ovvie conseguenze sulla fertilità. Chiaro dunque cosa si dovrebbe fare anzitutto per invertire la tendenza alla fertilità: abolire il divorzio. L’introduzione del divorzio è stata una vera sciagura per la società e non solo per i tassi di natalità.
Ma andiamo avanti: abbiamo già visto il dato del clamoroso aumento delle donne che non hanno figli. È l’affermarsi di una mentalità contraccettiva, sostenuta e incentivata dai tanti messaggi antinatalisti con cui siamo bombardati ogni giorno oltre alla degradazione del sesso a solo piacere. Questo dato è destinato a peggiorare ulteriormente con le nuove generazioni visto che nella stessa direzione – incentivare l’attività sessuale evitando gravidanze - puntano i corsi di educazione sessuale sempre più diffusi nelle scuole italiane. E vista la promozione degli stili di vita omosessuali, naturalmente sterili. A completare il quadro c’è la tragica realtà dell’aborto, ormai sempre più banalizzata al punto che è diventata impossibile da quantificare visto l’abbondante consumo di pillole del giorno dopo o dei 5 giorni dopo, abortive a tutti gli effetti malgrado siano chiamati contraccezione d’emergenza.
Ad ogni modo, solo salvando i bambini abortiti chirurgicamente avremmo circa centomila nati in più all’anno. E comunque anche qui la soluzione sarebbe semplice: vietare la contraccezione – e ovviamente l’aborto - promuovendo al contempo una vera educazione all’affettività e alla procreazione responsabile. E al contempo dire basta all’ideologia gender e alla promozione dell’omosessualità o della sessualità fluida, che renderà ancora più sterili le generazioni che si affacciano ora all’età riproduttiva.
Un altro dato emerge anche dal confronto con altri paesi europei. Si parla molto di politiche economiche e sociali che incentivino le nascite e diversi paesi del Nord Europa hanno una tradizione consolidata in merito: cospicui assegni familiari, asili nido, permessi parentali, e così via. Eppure vediamo che i tassi di fecondità, per quanto più alti che in Italia, restano ben sotto al livello di sostituzione. Il perché è semplice: la motivazione per avere o non avere un figlio non è anzitutto economica, ma culturale. Le condizioni economiche e le agevolazioni statali hanno sicuramente incidenza su chi ha già deciso di avere figli (ed è per questo che è saggio favorire le famiglie numerose) ma non hanno alcun effetto sulla decisione di averli. Ovvero, se una coppia ha deciso di non avere figli non saranno certo il bonus bebè o la disponibilità di un asilo nido a farle cambiare idea.
Bisogna avere una speranza per poter generare la vita, bisogna credere che c’è un destino buono, che sia possibile costruire qualcosa di positivo. Soprattutto oggi che anche il semplice assecondare la nostra natura, che ci vuole madri e padri, è diventato più difficile a causa della martellante propaganda avversa.
Ed è qui che notiamo come il crollo della fecondità in Italia sia andato di pari passo con il processo di secolarizzazione, con la perdita della fede cattolica e della propria identità. Ci vuole una grande opera di evangelizzazione, di annuncio di una Speranza certa, come quello che ci raggiunge ora con il Natale. Qui si apre il grande compito della Chiesa: non c’è bisogno di vescovi che parlino di fisco e contratti di lavoro, neanche di vescovi che tirino la volata a chi vuole sostituire i bambini mancanti con gli immigrati; ma di vescovi e sacerdoti che richiamino tutto il popolo alla missione, all’annuncio di Cristo. Ogni altra misura alla lunga sarà inutile se non si riparte da qui.