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LA RICERCA

Comitati Onu, un anno di pressioni pro Lgbt e aborto

Nel 2018 sono continuate le interferenze nelle politiche dei Paesi membri da parte dei comitati che dovrebbero monitorare l’osservanza dei trattati multilaterali. Si spinge soprattutto su aborto e «diritti gay», malgrado questi temi esulino dall’oggetto degli stessi trattati

Vita e bioetica 08_01_2019

Nel 2018 sono continuate in modo massiccio le pressioni, fatte da comitati che fanno capo all’Onu, per promuovere nei vari Stati membri norme favorevoli all’aborto e rivendicazioni tipiche dell’associazionismo Lgbt. I comitati di cui parliamo - come per esempio quelli sulle donne, i disabili, i bambini - dovrebbero monitorare l’osservanza dei trattati multilaterali stipulati all’interno delle Nazioni Unite, ma spesso assumono iniziative che esulano dalle loro competenze, andando a invadere aree di pertinenza dei singoli Stati, come il matrimonio e il diritto di famiglia.

Come ben sintetizza Rebecca Oas del Center for Family (C-Fam), un istituto di ricerca specializzato in diritto internazionale e nel monitoraggio di ciò che succede al Palazzo di Vetro e dintorni, «quando uno Stato membro dell’Onu ratifica un trattato multilaterale sui diritti umani, accetta di sottoporsi a una revisione periodica da parte di un comitato di esperti, che a sua volta fornisce osservazioni per sollecitare lo Stato membro ad aumentare la sua adesione al trattato. A differenza del trattato stesso, queste osservazioni non sono vincolanti, ma esse sono state citate dalle alte corti interne ai Paesi per giustificare misure come la liberalizzazione delle leggi sull’aborto». Osservazioni non vincolanti, appunto, ma utili ad aumentare la pressione (con l’aiuto di giudici nazionali e sovranazionali compiacenti) su una determinata nazione che magari non vuole adeguarsi al pensiero mondialista. Un “meccanismo” che in questi anni abbiamo visto funzionare più volte.

Dalla ricerca condotta da C-Fam sul 2018 risulta proprio che una gran parte delle osservazioni riguardanti sei dei maggiori trattati internazionali includano spinte verso l’aborto e verso temi Lgbt, questi ultimi categorizzati sotto la dicitura «orientamento sessuale e identità di genere» (SOGI, secondo l’acronimo inglese), nonostante nessuno di questi sei trattati contenga riferimenti diretti all’aborto o ai «nuovi diritti» gay: il che è come firmare un patto e poi sentirsi avanzare pretese che il patto non contempla. Per esempio, nell’anno da poco concluso, l’88% delle osservazioni finali indirizzate dal comitato che dovrebbe vigilare sul rispetto della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) hanno riguardato la richiesta di liberalizzare l’aborto, con contenuti variabili a seconda della legislazione del Paese destinatario della richiesta.

Altrettanto indicativo un fatto avvenuto nel settembre scorso. Sempre il comitato sulle donne, in una dichiarazione congiunta con il comitato sui diritti dei disabili, ha parlato esplicitamente di «accesso all’aborto sicuro e legale» definendolo addirittura «un prerequisito per salvaguardare i diritti umani delle donne»: una dichiarazione paradossale, che fa proprio a pugni con la realtà e la dignità dell’essere umano, se si pensa a quanti milioni di bambini disabili sono stati e continuano a essere soppressi attraverso l’aborto (ormai la stessa sorte va toccando, con l’eutanasia, ai già nati, ma praticamente questi fatti scandalizzano solo quando si parla di ciò che faceva il nazismo) e se si pensa che circa la metà degli aborti riguardano bambine, senza dimenticare il dramma che fa seguito alla decisione delle donne di abortire (la ben nota sindrome post-aborto, negata solo da chi preferisce coprirsi gli occhi pur di non vedere).

In materia di «orientamento sessuale» e «identità di genere», due espressioni propagandate abilmente dai gruppi Lgbt e che purtroppo stanno diventando di uso comune, ben il 93% delle osservazioni finali provenienti da un altro comitato, ossia quello che vigila sull’osservanza del Patto internazionale sui diritti civili e politici, va nel senso della loro promozione all’interno dei singoli Stati. Ma c’è un altro evento di cui il medesimo comitato, ignorando i rilievi di comune buonsenso mossi nei mesi precedenti da numerosi gruppi pro life, si è reso protagonista in negativo nel 2018. A novembre ha infatti ufficializzato un commento generale all’articolo 6 dello stesso Patto sui diritti civili (articolo che inizia affermando giustamente che «il diritto alla vita è inerente alla persona umana») arrivando incredibilmente a sostenere che il diritto alla vita debba includere il diritto all’aborto (sul punto aveva già scritto Tommaso Scandroglio, quando il suddetto commento generale era ancora una bozza), che in questa diabolica interpretazione sarebbe quindi da depenalizzare. Simile apertura, nello stesso commento, il comitato l’ha fatta nei confronti dell’eutanasia.

Da quanto detto si capisce che i bambini sono tra i soggetti più interessati e più vulnerabili rispetto alla realizzazione, del resto già in corso, di un’agenda così malvagia. Poiché la natura umana è un dato oggettivo, i tentativi di cambiare la percezione comune del bene e della realtà - cioè dominarla secondo i propri fini particolari - sono tanto più efficaci (nel male, si intende) quanto più vengono condotti fin dalla più tenera età. E dunque anche la Convenzione sui diritti dell’infanzia, fin qui ratificata da tutti i Paesi membri dell’Onu con la notevole eccezione degli Stati Uniti, è stata presa a pretesto dal comitato che vigila sul suo rispetto per emanare osservazioni favorevoli all’aborto (65% dei casi) e alle pretese Lgbt (53%).

Oltre al lavoro di pressione delle commissioni sui diritti umani - delle quali si chiede da tempo, invano, una riforma volta a eliminarne gli aspetti più arbitrari - non va dimenticato un altro meccanismo che negli ultimi anni è servito alla lobby mondialista per portare avanti la propria politica: si tratta dell’Universal Periodic Review (Upr), che consente a turno a ogni singolo Paese di rivolgere raccomandazioni a un altro Paese sottoposto a revisione periodica sul rispetto dei diritti umani (altro termine che ormai comprende tutto e il contrario di tutto). In teoria può essere usato anche in senso buono - vedi per esempio il Kenya che a inizio 2018 ha incoraggiato il Botswana a resistere alle pressioni esterne dei gruppi abortisti e di «affermare che non c’è un diritto umano internazionale all’aborto» - ma nella pratica sono i Paesi più rappresentativi della cultura dominante, da quelli dell’Europa occidentale al Canada, a usare l’Upr (di cui abbiamo già scritto su questo quotidiano) per promuovere gli interessi dei potenti, avversando vita e famiglia.