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IL CASO ZANCHETTA

Abusi sessuali, nuove rivelazioni e imbarazzi del Papa

Il Papa sapeva benissimo delle accuse di abusi sessuali nei confronti del suo "amico" vescovo Gustavo Zanchetta: lo ha rivelato alla AP uno dei preti accusatori. È l'ennesimo caso di "copertura" in cui viene chiamato in causa il Papa, a cui diventa assurdo rispondere con la tesi del complotto. 

Editoriali 21_01_2019
Il Papa con il vescovo Zanchetta

Le notizie che arrivano dall’Argentina sul caso Zanchetta sono ben poco rassicuranti per papa Francesco. Parliamo del vescovo Gustavo Zanchetta, dimessosi dalla sua diocesi di Oran in modo misterioso nell’agosto 2017 (vi era stato nominato da papa Francesco nel novembre 2013), poi nel dicembre successivo chiamato a Roma e nominato assessore dell’Apsa, l’organismo che si occupa della gestione del patrimonio della Santa Sede, infine sospeso all’inizio di gennaio da ogni funzione dopo che è stata avviata un’indagine per abusi sessuali.

Già due settimane fa avevamo riferito di una versione ufficiale della Santa Sede che smentiva affermazioni precedenti e ammetteva che le dimissioni del 2017 erano dovute a difficoltà nella conduzione della diocesi e ai rapporti tesi con i sacerdoti, ma che solo lo scorso dicembre si era saputo delle accuse di abusi sessuali.

Ora però l’ex vicario generale della diocesi di Oran, Juan Jose Manzano, uno dei tre sacerdoti che hanno inviato in Vaticano le segnalazioni su Zanchetta, in una intervista esclusiva alla Associated Press ha detto che papa Francesco conosceva bene le accuse nei confronti di Zanchetta, tanto da averlo incontrato due volte, nel 2015 e nel 2017,  subito dopo l'arrivo in vaticano delle informazioni, per discutere con lui il da farsi. Nel 2015, lo stesso Manzano aveva fatto arrivare in Vaticano attraverso vescovi amici dei selfie che Zanchetta si era fatto in posizioni oscene, mentre nel 2017 oltre alla gestione autoritaria e irrazionale della diocesi le denunce includevano molestie e abusi nei confronti dei seminaristi (uno dei tre accusatori è proprio il rettore del seminario).

Nella prima circostanza Zanchetta si giustificò dicendo che il suo telefonino era stato hackerato e che c’erano persone che stavano cercando di mettere in cattiva luce il Papa. Zanchetta infatti era molto legato all’arcivescovo Bergoglio, che era stato anche il suo confessore, ed è stato sottosegretario esecutivo della Conferenza episcopale argentina quando Bergoglio ne era presidente. Proprio questa amicizia gli spalancò la porta all’episcopato una volta che Bergoglio divenne papa Francesco, malgrado ci fossero molte accuse di abusi di potere quando ricopriva la carica di economo nella diocesi natale di Quilmes.

Dopo l’incontro con il Papa del 2017 invece, Zanchetta diede improvvisamente le dimissioni per motivi di salute, sparì dalla circolazione e poi, come detto, gli fu dato un posto importante in Vaticano.

Queste ulteriori rivelazioni costituiscono un oggettivo imbarazzo per il Papa, a maggior ragione in questo periodo di preparazione al vertice sugli abusi sessuali che ci sarà in Vaticano dal 21 al 24 febbraio. Sebbene monsignor Manzano scagioni completamente papa Francesco, considerandolo una vittima dell’arte manipolatoria di Zanchetta, i fatti purtroppo suggeriscono anche altre considerazioni. Ancora una volta infatti si è alle prese con reticenze e bugie: si è voluto far credere che le accuse di abusi sessuali fossero recenti, invece emerge che erano ben note dal 2015 ma il Papa non vi aveva dato ascolto, e anche nel 2017 aveva protetto il suo amico vescovo addirittura dandogli un incarico di prestigio in Vaticano.

Non è la prima volta che accade: era già successo con il vescovo cileno Barros, e ancora con il cardinale (ora ex) statunitense McCarrick. Casi che si presentano tutti allo stesso modo: promozioni e incarichi speciali a vescovi amici, malgrado le accuse di abusi sessuali; l’inevitabile scoppio dello scandalo; la giustificazione che il Papa nulla sapeva delle accuse precise; infine i testimoni che smentiscono la ricostruzione del Papa (vedi Cile) o dei suoi collaboratori (negli altri casi). In un altro caso invece, quello del deceduto cardinale britannico Cormac Murphy O’Connor, fonti della Congregazione per la Dottrina della Fede, mai smentite, hanno affermato nei mesi scorsi che il Papa in persona ha bloccato un’indagine per abusi.

È una situazione che diviene sempre più ingestibile, e a questo punto ci si può legittimamente aspettare che altri casi possano deflagrare: ad esempio, la vicenda del cardinale honduregno Maradiaga, accusato di coprire abusi sessuali del suo ausiliare e anche di appropriazione indebita di fondi della diocesi, è ancora foriera di sviluppi. E non è l’unico.

Se si vuole accettare la buona fede di papa Francesco, bisogna almeno dire che è prigioniero della “sindrome da complotto” che i suoi più stretti collaboratori gli hanno cucito addosso e con cui rispondono ogni volta alle testimonianze che emergono. Quando i suoi amici e “grandi elettori” in conclave vengono accusati, scatta la tesi della difesa secondo cui si tratta sempre di accuse ideologiche che, attraverso i collaboratori più stretti, intendono colpire il Papa. Si tratta ormai di una strategia difensiva assurda, perfino patetica, che danneggia anzitutto papa Francesco e la sua credibilità. E non basterà certo la riduzione allo stato laicale di McCarrick per diradare le pesanti ombre che si stanno addensando su questo pontificato.