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FAMIGLIA

Paglia, travisare GPII per sostenere la rivoluzione

Per giustificare la comunione ai divorziati risposati, in una intervista il Gran cancelliere dell'Istituto su matrimonio e famiglia, distorce quanto scritto da Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio.

Famiglia 30_09_2017
Monsignor Paglia

Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio istituto teologico San Giovanni Paolo II per le Scienze sul matrimonio e sulla famiglia, e mons. Pierangelo Sequeri, Preside del suddetto istituto, hanno rilasciato una lunga intervista al sito statunitense Crux (clicca qui) sul futuro di questo istituto. Molti i punti indagati, ma qui vogliamo mettere sotto la lente di ingrandimento solo alcuni di essi.

Mons. Paglia dichiara: «La vera rivoluzione è avvenuta sotto Giovanni Paolo II, non sotto Francesco, che non è ancora stato compreso. Bisogna ricordare che prima della Familiaris Consortio (FC), accadeva che i divorziati risposati non solo non riuscivano a fare la Comunione, ma erano stati praticamente scomunicati ed espulsi. Erano outsider. Dopo Giovanni Paolo, tutti erano dentro la casa … Non posso spedirli ora in terrazza!».

Alcune note. I divorziati risposati prima della pubblicazione della FC non venivano di certo scomunicati. In secondo luogo, parrebbe che Giovanni Paolo II avesse offerto consapevolmente la sponda all’accesso dei divorziati risposati alla Santa Comunione. Ma non è così, infatti nella FC leggiamo: «La Chiesa […] ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati» (84). Se usiamo le categorie concettuali domestiche indicate da mons. Paglia, la FC relega queste persone in terrazza, se non in cantina.

Altra questione: i tempi sono cambiati. Mons. Sequeri afferma: «È che oggi, la questione del padre, della donna, la questione della procreazione non sono più semplici capitoli della teologia morale dotati di un set di regole comportamentali. Sono diventate questioni globali decisive per l’intima struttura della società». Mons Sequeri non si riferisce esplicitamente alla FC, però è lecito domandarsi: la FC è datata, è superata? Oppure in essa possiamo trovare un’analisi dei tempi moderni valida tutt’ora e rinvenire in essa gli strumenti adatti per sconfiggere i mali presenti?  Nel capitolo «La situazione della famiglia nel mondo di oggi» della FC possiamo leggere: «Non mancano segni di preoccupante degradazione di alcuni valori fondamentali: una errata concezione teorica e pratica dell'indipendenza dei coniugi fra di loro; le gravi ambiguità circa il rapporto di autorità fra genitori e figli; le difficoltà concrete, che la famiglia spesso sperimenta nella trasmissione dei valori; il numero crescente dei divorzi; la piaga dell'aborto; il ricorso sempre più frequente alla sterilizzazione; l'instaurarsi di una vera e propria mentalità contraccettiva» (6). All’elenco aggiungiamo anche le unioni di fatto (81), gli sposati solo civilmente (82)  e ovviamente i divorziati risposati  (84). Paiono proprio le patologie che anche oggi intaccano la salute della famiglia. Vero, manca il riferimento alle unioni civili omosessuali, ma le cause che hanno portato ai danni sopra accennati possono benissimo essere riferite anche alla teoria del gender et similia.

Mons. Sequeri poneva l’accento non solo sulla novità di certi fenomeni, ma anche sulle terapie da mettere in campo per farvi fronte. Nell’immaginario collettivo pare che l’accoglienza, il discernimento e la misericordia siano parole d’ordine di nuovo conio. Non è così. Prendiamo sempre in mano FC. Innanzitutto in essa c’è addirittura un capitolo dedicato al “Discernimento evangelico”. Il discernimento invocato da Giovanni Paolo II non era la bacchetta magica che trasformava, in certe situazioni da discernere, un male morale in bene: l’adulterio rimane semper et ad semper (sempre e in ogni circostanza) una condotta intrinsecamente malvagia. Il discernimento riguardava – e deve riguardare anche oggi – la responsabilità soggettiva laddove c’è un divorzio. «Sappiano i pastori – scrive Giovanni Paolo II - che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C'è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido» (84). I primi, tra l’altro, possono accedere alle Sacre specie se vivono in grazia di Dio. Tanto per ribadire che la FC è attualissima, il capitolo dedicato al discernimento è tutto focalizzato sulla possibile deriva fenomenologica, in campo ecclesiale, già in atto ai tempi di Giovanni Paolo II e che oggi marcia alla massima velocità: discernimento, dice in sintesi FC, non è sinonimo di accettazione della prassi dominante. In quel capitoletto – ci si perdoni la voluta iperbole - pare quasi che il Santo Giovanni Paolo II fosse meno preoccupato dai divorzi familiari che dal divorzio di alcuni uomini di Chiesa dalla verità.

E in merito ad accoglienza e misericordia? Leggiamo sempre FC: «Esorto caldamente i pastori e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio» (84). Per poi tacere dei capitoli intitolati “Gradualità e conversione” e “Inculturazione” che esprimono bene l’ansia pedagogica di Giovanni Paolo II, ben consapevole che la virtù è status che si acquisisce gradualmente e che la vetta della santità si raggiunge per tappe.

In breve la FC aveva ben individuato i nemici della famiglia, quegli stessi che ancor oggi insidiano nelle fondamenta l’istituto matrimoniale, ed aveva offerto soluzioni che, germinando dalle imperiture verità morali, si aprivano alla carità più profonda verso le persone in difficoltà. Di certo Giovanni Paolo II non usava la dottrina come un randello per gli impenitenti. Dunque niente set di rigide regole morali in cui costringere i fedeli.

Un’ultima riflessione che nasce non tanto dalla lettura dell’intervista ma piuttosto da alcune sensazioni quasi epidermiche vista l’aria che tira. Non vorremmo – ma già ci autoaccusiamo alla Cappato di pensare male -  che il matrimonio sacramentale finisse in soffitta perché ideale improponibile per i contemporanei completamente scristianizzati. Giovanni Paolo II non propose un matrimonio di livello base – ad esempio solo naturale o peggio civile ma ben fatto -  per i battezzati che hanno il certificato di residenza cattolica in periferia e un matrimonio high level  - quello sacramentale - per i cattolicissimi,  bensì indicò a tutti il medesimo matrimonio sacramentale perché l’unico voluto da Dio: «La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che - già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza» (84). Inutile a dirsi che anche per i non battezzati il matrimonio sacramentale, previo battesimo, è il dono migliore che possiamo fare loro.