Morte cerebrale e trapianti, ancora scontri nella Chiesa
Il mercato miliardario di organi, i parametri della vita fondati non più sulla sua oggettività ontologica, ma sulla funzionalità e infine il risveglio, pochi giorni dopo la morte di Alfie, di un 13enne giudicato cerebralmente morto, hanno risollevato il problema della "morte cerebrale". Ma cosa dice la Chiesa? E come si comportano i medici cattolici in caso di espianti? Dopo 50 anni dal paradigma che mutò la morte, il dibattito è ancora aperto.
- L'ANOMALIA DEL PORTOGALLO CHE BOCCIA L'EUTANASIA, di Marco Respinti
Lo scandalo degli organi che coinvolse l'ospedale del piccolo Alfie Evans, la volontà di staccare la ventilazione al bambino in nome del fatto che il suo cervello presentava disfunzioni e anomalie. I parametri della vita fondati non più sulla sua oggettività ontologica, ma sulla sua funzionalità e infine il risveglio, pochi giorni dopo la morte di Alfie, del 13enne Trenton McKinley, giudicato cerebralmente morto, hanno risollevato il problema della "morte cerebrale".
Abbiamo raccontato di quando 50 anni fa ad Harvard fu mutato il concetto di morte in quello di "morte cerebrale" al fine di legalizzare l'espianto di certi organi come il cuore, mentre prima si potevano donare solo alcuni organi da vivi come il rene o la cornea a 24 ore dall'arresto cardiaco. Un mutamento di paradigma che di fatto ha prodotto sempre più casi di persone giudicate cerebralmente defunte, ma oggi vive. Perciò, al di là dell'esattezza della diagnosi nei casi raccontati, urge risolvere l'enigma di un dibattito sulla morte cerebrale che non si è mai chiuso né a livello scientifico né filosofico.
Ma cosa dice la Chiesa? E come si comportano i medici cattolici? Dopo il '68 ci fu un un silenzio assenso, finché la Pontificia Accademia delle Scienze nel 1985 non si espresse così: «La morte sopravviene quando: a) le funzioni spontanee del cuore e della respirazione sono definitivamente cessate, oppure b) si è accertata la cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale (sebbene il cuore batta, ndr)». Pozione che l’Accademia ribadì nell’89 sebbene il professor Josef Seifert, rettore dell'Accademia Filosofica Internazionale del Liechtenstein, avanzasse forti obiezioni. In quegli anni, infatti, alcuni medici cattolici, come il neonatologo Paul Byrne, cominciavano già a contestare la definizione. All'inzio degli anni Novanta anche altri ricercatori come Robert Troug e James Fackler, scoprendo ad esempio che il cervello di persone con tutte le funzioni dell'encefalo completamente inattive produce ancora ormoni, si opposero. A sollevare altri dubbi etici fu il fatto che nel 1992 una donna cerebralmente morta, riuscì a portare avanti parte della gravidanza (nel 2014 un'altra donna partorì mesi dopo la diagnosi di morte cerebrale).
L'anno precedente (1991) volle intervenire anche Giovanni Paolo II che pur non disdegnando la donazione volontaria degli organi, ritenuta da tutti etica nei casi già citati, spiegò che «possono essere donati soltanto dopo la morte», ma purtroppo senza specificare cosa intendesse per morte. A chiarire la questione ci pensò nel 1997 il cardinale di Colonia Joachim Meisner in occasione dei lavori del Parlamento tedesco sul tema del trapianto di organi, diffondendo questo messaggio: «Allo stato attuale del dibattito l'identificazione della morte cerebrale con la morte dell'uomo non è più sostenibile dal punto di vista cristiano. L'uomo non può essere ridotto alle sue funzioni cerebrali. Non si può dire che la morte cerebrale significhi la morte, né che sia un segno di morte. Essa non è neppure il momento della morte. Tutte le riflessioni sulla donazione degli organi devono pertanto partire dall'idea che un uomo, per il quale è stata accertata secondo le regole dell'arte medica soltanto la morte cerebrale, è ancora vivo».
Al contrario, bioeticisti di spicco nella Chiesa, come padre Gonzalo Miranda, allora segretario Operativo del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sostenevano come il criterio della morte cerebrale fosse valido, affermando che la perdita dell'attività irreversibile dell'encefalo segnava la fine dell'unità necessaria per considerare una persona tale. Non importa se il suo cuore continuava a battere.
Con loro un'altra delle voci più autorevoli in campo bioetico della Chiesa, il cardinale Dionigi Tettamanzi, appoggiava in pieno la definizione di Harvard. Nel 2000 in "Nuova Bioetica Cristiana" avrebbe scritto che «la morte cerebrale è il vero criterio della morte, giacché l'arresto definitivo delle funzioni cardiorespiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale».
Nell’agosto del 2000 però, sempre Giovanni Paolo II parlando al congresso internazionale della società di trapianti, questa volta precisò che «gli organi vitali singoli non possono essere prelevati che ex cadavere» ma aggiunse che «in questa prospettiva, si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica». Ma è bene ricordare che lo stato di cadavere, che fino a prima del ’68 coincideva con lo stato morte, è segnato dall'arresto di tutte le funzioni vitali (sistemi nervoso, respiratorio e anche circolatorio). Entrando nel problema, Rainer Bekmann, giurista dell’Università di Wurzburg, più tardi fece notare che «un essere umano in stato di morte cerebrale non è un cadavere…sotto il profilo giuridico non esiste una terza condizione dell'Essere tra l'essere in vita o morti».
Nel 2005 la Pontificia Accademia delle Scienze riaprì quindi la discussione, ma questa volta, oltre a Seifert, numerosi esperti del campo (fra cui l’amico e compagno di studi di Benedetto XVI, Robert Spaemann) parlarono della mancanza di attendibilità scientifica del criterio della morte cerebrale, sebbene gli atti, poi raccolti nel libro "Finis Vitae” curato da Roberto de Mattei, non furono pubblicati dall’Accademia. Ma in occasione dei 40 anni dal rapporto di Harvard, nel settembre 2008 l’Osservatore Romano riaprì il dibattito con un articolo di Lucetta Scaraffia che esplose come un incendio dirompente purtroppo domato prima del tempo.
L’articolo ricordava che il cambiamento della definizione di morte fondata «non più sull'arresto cardiocircolatorio, ma sull'encefalogramma piatto» risolveva «il problema del distacco dalla respirazione artificiale» rendendo «possibili i trapianti di organo». Scaraffia aggiunse che la «Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale». A ricordare questo fatto era il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro “Morte cerebrale e trapianto di organi” da cui emerge che «la giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo».
Becchi, sostenitore dell’autodeterminazione e del trapianto anche di cuore, era però convinto che non si dovesse mentire dicendo che la persona il cui cervello è inattivo, ma il cui sistema cardiocircolatorio è funzionante, sia morta. In un’intervista dello stesso anno a Il Giornale il filosofo chiarì che persino il neurologo Carlo Alberto Defanti, pur favorevole all’eutanasia, aveva ammesso «l'impossibilità di esplorare le funzioni di ampi settori del cervello nell’individuo in stato di coma» riconoscendo che la morte cerebrale «non dimostra compiutamente l’assenza irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».
Nel novembre 2008, papa Benedetto XVI ribadì al congresso internazionale sul tema “un dono per la vita. Considerazioni sulla donazione di organi” che «è utile ricordare, comunque, che i singoli organi vitali non possono essere prelevati che ex cadavere, il quale peraltro possiede pure una sua dignità che va rispettata». Già da cardinale, nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, aveva detto che «per il nobile atto della donazione degli organi dopo la morte deve essere pienamente accertata la morte reale del donatore», rifiutando la definizione di “morte cerebrale”. Ma finché la Chiesa non rifiuterà nero su bianco il paradigma di Harvard la confusione continuerà a regnare.