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EUTANASIA

"Miglior interesse" di una disabile, Modena come Liverpool

Un giudice di Modena ha nominato tutore di una donna in stato di veglia aresponsiva il suo anziano padre, incaricato di ricostruire le volontà della figlia riguardo alle cure in simili circostanze. E la decisione dovrà essere presa "nel miglior interesse" della figlia. Che, grazie alla legge sulle Dat, potrebbe anche essere la morte.
FINIREMO COME LA GRAN BRETAGNAdi Benedetta Frigerio

Vita e bioetica 11_05_2018
Ospedale di Baggiovara, Modena

Una donna di 44 anni da gennaio versa in uno stato di veglia aresponsiva (quello che un tempo veniva definito stato vegetativo) a seguito di una emorragia cerebrale. Attualmente è ricoverata presso l’ospedale di Baggiovara in provincia di Modena.

Il giudice civile Roberto Masoni ha nominato tutore l’anziano padre della donna. Prima del varo della legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (Dat) n. 219/2017 le differenti figure preposte alla rappresentanza legale degli incapaci dovevano già tutelare gli interessi dei propri assistiti, ma dalla rappresentanza si escludevano gli atti personalissimi, come ad esempio il rifiuto di cure salvavita. In buona sostanza prima del varo della legge sulle Dat, l’incapace – al pari del minore – doveva essere curato sempre. Infatti solo la persona maggiorenne e capace di intendere e volere poteva rifiutare trattamenti terapeutici.

Tale rifiuto quindi non poteva venire – in punta di diritto e al netto di alcune derive giurisprudenziali – per bocca del loro rappresentante legale. Con l’attuale legge invece il quadro normativo è cambiato: genitori e rappresentanti legali (tutori, amministratori di sostegno, etc.) possono spingersi fino a decidere della vita e della morte dei propri figli o assistiti, come indica l’art. 3.

Il giudice Masoni nell’ordinanza di nomina non ha fatto altro che applicare la recente legge. Ha quindi specificato che l’attività di rappresentanza legale del padre deve essere volta “al miglior interesse” della figlia e che «la prestazione del consenso informato (ovvero del rifiuto) per cure e trattamenti sanitari che si rendessero necessari per la salute della persona» sarà prestato dal padre medesimo dato che la donna è impossibilitata a manifestare qualsiasi volontà propria.

A leggere queste indicazioni parrebbe che non ci siano spazi per interventi eutanasici, ad esempio richiedendo l’interruzione della nutrizione e idratazione assistita. Invece non è così. Infatti l’ordinanza del giudice non può che rispettare il  contenuto del comma 3 dell’art. 3: “Il  consenso informato  della persona interdetta ai sensi dell'articolo 414 del codice civile è espresso o rifiutato dal tutore, sentito l'interdetto ove possibile, avendo come  scopo la tutela della salute psicofisica e della vita della persona nel  pieno rispetto della sua dignità”. Anche questo comma parrebbe escludere l’eutanasia ed anzi sembrerebbe una garanzia contro derive eutanasiche dato che si afferma che il consenso del tutore deve essere volto sempre alla “tutela della salute psicofisica e della vita della persona”.

Ma l’eutanasia riceve legittimazione giuridica dall’ultima parte di questo comma: “nel pieno rispetto della sua dignità”. Dunque, sì tutelare la salute e la vita della persona, ma a patto che questa tutela sia congrua con la sua dignità personale, altrimenti è accanimento terapeutico. E l’espressione “dignità personale” - ce lo dicono tra gli altri i PM che hanno chiesto l’assoluzione di Marco Cappato per aver aiutato Dj Fabo a morire - non deve essere intesa in senso metafisico: ogni persona, per il semplice fatto che è in vita,  è portatrice di un’intrinseca preziosità che nessuno stato di vita, nessuna patologia, nessuna disabilità sono in grado di intaccare. Bensì “dignità personale” deve essere intesa in senso utilitarista: se le condizioni di vita, le patologie, la perdita di alcune funzioni comportano un depauperamento della qualità dell’esistenza ecco che la dignità della persona viene deprezzata e dunque è giuridicamente legittimo uccidere il proprio assistito ad esempio interrompendo la nutrizione e l’idratazione assistita.

In sintesi: se è indegno vivere in coma attaccati a delle macchine è doveroso uccidere il paziente. Il padre della 44enne quindi prima del varo della legge 219 in punta di diritto non poteva “staccare la spina” (ed il caso Eluana testimonia che i giudici presero una decisione contra legem), ora invece potrà farlo se appunto la morte della figlia verrà ricercata nel suo miglior interesse, ossia se la morte appare l’unico modo per tutelare la sua dignità personale.

Il giudice ha aggiunto solo un vincolo in merito a questo aspetto che non è presente nella legge sulle Dat: il padre, nelle decisioni di natura terapeutica e per quelle attinenti all’ambito patrimoniale, dovrà tentare di ricostruire le volontà della figlia tramite la raccolta di testimonianze, documenti, mail, etc. A tal proposito la legge prevede unicamente che il tutore, prima di esprimere il consenso o il dissenso in merito alle terapie, senta l’interdetto – che quindi si suppone sia vigile - ma solo se ciò sia possibile. Nel caso della donna modenese questa è invece impossibilitata a comunicare. Inoltre è da tenere in considerazione che anche se si riuscisse a recepire le volontà dell’interdetto queste non sono vincolanti per il tutore, proprio perché il soggetto è giuridicamente incapace. Dunque in capo al tutore c’è solo un obbligo consultivo e inoltre meramente eventuale come abbiamo visto.

La ricostruzione della volontà della donna è una soluzione giuridicamente  dai piedi d’argilla e assai pericolosa. Infatti non solo è difficile disegnare le esatte volontà della donna espresse nel passato, ma anche se si riuscisse nell’intento chi ci assicura che la figlia nel frattempo non abbia cambiato idea? Chi esclude che se la donna aveva espresso la volontà di morire se mai fosse finita in coma, ora non abbia mutato parere? Curioso poi che per vendere e comprare casa serva una manifestazione attuale di volontà con timbri e contro timbri ed invece per decidere della vita di una persona basti affidarsi ai ricordi di amici e parenti, mezzi di prova per loro natura assai inattendibili.

Il succo di questa vicenda giudiziaria-ospedaliera è in definitiva il seguente: ogni volta che un giudice nominerà un rappresentante legale per tutelare un incapace, la cui sopravvivenza dipenderà da alcuni presidi clinici, la “tutela” del proprio assistito potrà spingersi fino a decretarne la morte, se la morte sarà nel suo miglior interesse.