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MARXISMO LATINO

Lula di nuovo presidente in Brasile. Onda rossa in tutto il Sud America

La battaglia per il controllo del Brasile si è conclusa con il ritorno di Lula presidente. Ufficialmente è ancora aperta, almeno finché il presidente uscente Jair Bolsonaro non concederà la vittoria al suo avversario. Si tratta comunque di una vittoria risicata e Lula incontrerà molta opposizione nel Paese, soprattutto a livello locale. La vittoria della sinistra si inserisce nel macro-fenomeno dell'onda "rosa" o "rossa" a seconda del massimalismo dei partiti di sinistra al governo in tutto il Sud America. Nonostante l'evidenza del suo fallimento, la sinistra continua a vincere. 

Esteri 01_11_2022
Brasile, festa per Lula

La battaglia per il controllo del Brasile si è conclusa con il ritorno di Lula presidente. Ufficialmente è ancora aperta, almeno finché il presidente uscente Jair Bolsonaro non concederà la vittoria al suo avversario. Era prevedibile: la vittoria dell’ex presidente del Partito dei Lavoratori è stata molto risicata, con appena 2 milioni di vantaggio (contro 5 milioni di schede nulle) in un Paese con 156 milioni di aventi diritto al voto ed un’affluenza prossima all'80% dovuta all’obbligo di voto previsto dalla legge. La vittoria di Lula sta già provocando scioperi, a partire da quello dei sindacati dei camionisti che, da ieri, bloccano le arterie stradali in 13 Stati con i loro grandi veicoli.

Al di là della battaglia, che può essere più o meno lunga a seconda della capacità di resistenza di Bolsonaro (che anche in questo caso ricorda da vicino l’ex presidente Usa Donald Trump), la prima notizia è che il Brasile è tornato a sinistra, ma con molte più difficoltà di quante ne fossero attese. La mappa elettorale mostra un Paese spaccato, in diagonale, con un Nordest rosso (socialista) e un Sudovest blu (conservatore). Eccezioni che confermano la regola sono gli Stati dell’estremo Nord tropicale, Roraima (al confine con il Venezuela) e Amapà, che hanno votato Bolsonaro, il resto del Nordest è tutto andato al Partito dei Lavoratori, che in quell’area ha costruito i suoi “feudi” elettorali. La regione blu è comunque immensa e include anche gli Stati di Rio de Janeiro e Sao Paulo, oltre a quelli economicamente più sviluppati del Sud. Le altre corse elettorali, quelle per i governatori e quella per il Congresso, disputate fra il primo turno e la giornata di ieri, hanno dato la vittoria al Partito Liberale di Bolsonaro e ai suoi governatori: Romeu Zema a Minas Gerais, Claudio Castro a Rio de Janeiro e Tarcisio de Freitas a Sao Paulo. Anche se vincitore, di misura, Lula sarà un’anatra zoppa.

Nel quadro più generale del Sud America, tuttavia, la vittoria di Lula si inserisce in una tendenza ormai consolidata. La chiamano: seconda “onda rosa”. Non la definiscono rossa, solo perché al suo interno vi sono sia partiti marxisti, sia socialdemocratici più moderati. Nel caso di Lula si deve parlare proprio di rosso, perché il suo Partito dei Lavoratori è di ispirazione marxista. Ed è legato al movimento dei Senza terra che è nato rivoluzionario, con l’occupazione e l'esproprio delle terre. In tutta l’America Latina i governi di centro e centrodestra si contano ormai sulle dita di una mano: Uruguay, Paraguay, Ecuador e Guatemala. Il resto, dal Messico governato dal presidente populista di sinistra Lopez Obrador al Cile del presidente di estrema sinistra Gabriel Boric, è un continente ormai più rosso che rosa. 

Se nella prima onda rosa (2001-2003) c’era una sola dittatura conclamata, a Cuba, mentre Chavez in Venezuela iniziava a mostrare il suo volto autoritario, in questa onda rossa del 2020-2022 nel continente si contano ben tre totalitarismi: il Venezuela di Maduro, il Nicaragua di Ortega e sempre Cuba che è il terzo regime comunista più longevo del mondo, dopo Cina e Corea del Nord. Anche i leader di sinistra democraticamente eletti in questa ondata sono più massimalisti rispetto ai loro predecessori. Il già citato Gabriel Boric, in Cile, avrebbe voluto cambiare la Costituzione in senso socialista. Luis Arce in Bolivia non vuole essere da meno rispetto al suo predecessore Evo Morales ed ha già iniziato processi politici contro gli oppositori. La Colombia per la prima volta ha scelto un governo di sinistra e ha eletto un presidente estremista, Gustavo Petro.

Il ritorno di fiamma delle sinistre massimaliste nel continente sud americano sfida la logica e l’esperienza. Il fallimento del socialismo di Chavez e Maduro è sotto gli occhi di tutti: con 6 milioni di cittadini già emigrati, il Venezuela è la più grave crisi umanitaria in tempo di pace. Eppure nella vicina Colombia, che dà rifugio a molti dei fuggitivi, hanno votato un capo di Stato dichiaratamente simpatizzante per il chavismo. A Cuba, le proteste del luglio 2021 hanno aperto gli occhi dell’opinione pubblica internazionale su una realtà ancora povera e repressa, nonostante le promesse di riforme. Eppure l’isola comunista esercita ancora un fascino insuperabile in tutte le sinistre latine. Il Brasile stesso, sotto la presidenza di Dilma Rousseff ha attraversato la peggior crisi della storia recente fra il 2015 e il 2016. Il suo predecessore Lula (presidente dal 2003 al 2010) ora è stato rieletto perché il suo mandato è ricordato come uno dei periodi più prosperi della storia recente brasiliana. Ma si avvantaggiava di una congiuntura internazionale favorevole per tutti e in particolare per un’economia che si basa sulle esportazioni. Il conto delle politiche sociali varate da Lula lo ha pagato, però, la Rousseff. Ed entrambi sono stati coinvolti nel maxi-scandalo delle tangenti a Petrobras, l'azienda petrolifera di Stato. Quando Bolsonaro venne eletto, quattro anni fa, la maggioranza dei brasiliani non voleva più sentir parlare della sinistra. O almeno così pareva, a giudicare dai voti.

La sinistra massimalista continua a vincere, nonostante ogni evidenza, soprattutto a causa del Covid, che ha travolto economie già fragili e messo a durissima prova presidenti e governi di centrodestra, per il solo fatto che erano in carica al momento sbagliato. Ma questa è solo la causa più immediata.

La causa di lungo termine è ideologica. La sinistra latino-americana ha iniziato ad organizzarsi, su scala continentale, con il Foro di Sao Paulo. La prima riunione avvenne nel 1990 nella città brasiliana, proprio su iniziativa del Partito dei Lavoratori. Nacque come coordinamento di partiti e movimenti “di sinistra e anti-imperialisti” come risposta alla caduta del Muro di Berlino. Il blocco orientale non era ancora morto, in Sud America stava tornando ovunque la democrazia, con governi eletti di centro e centro-destra (l’unico di sinistra, allora, era a Cuba e sicuramente non era eletto) e la sinistra lanciava la sua sfida di lungo termine per creare un nuovo blocco socialista. Non si trattava di far rinascere il socialismo reale di stampo sovietico, ma di creare un nuovo mix fatto di socialismo economico, di indigenismo, di movimenti sociali (come i Senza terra) e di tanto cattolicesimo progressista, inclusa la mai defunta (anche se allora era appena stata scomunicata) Teologia della Liberazione.

Si tratta di un modello più flessibile che assume forme diverse a seconda del Paese in cui viene applicato, ma ha ovunque caratteristiche simili: prima viene ridotta la proprietà privata fino alla sua quasi completa soppressione (come in Venezuela e Nicaragua), poi si riduce la libertà di espressione, la società viene irreggimentata man mano che è resa sempre più dipendente dagli aiuti di Stato e infine della democrazia resta solo un simulacro. Questo percorso può essere più o meno esplicito, più o meno celere, ma non dipende dalla saggezza o dalla mitezza dei leader di sinistra, bensì dalla forza dell’opposizione. In democrazie più mature come il Cile è fallita la riforma costituzionale che avrebbe accelerato il percorso. In Brasile, la forte opposizione che Lula incontrerà, a livello nazionale e locale gli impedirà (forse) di rendere il suo Paese un nuovo gigantesco Venezuela.