L'alleanza tra giudici e medici per far morire Alfie
-ESCLUSIVO: IL VIDEO CHE INCHIODA L'ALDER HEY HOSPITAL
C’è una sola certezza in quanto sta avvenendo dalle 22.17 del 23 aprile, quando ad Alfie Evans è stato tolto il supporto del ventilatore: i medici dell’Alder Hey Hospital, dove il bambino di 23 mesi è ricoverato, e i giudici vogliono Alfie morto. E il più presto possibile.
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C’è una sola certezza in quanto sta avvenendo dalle 22.17 del 23 aprile, quando ad Alfie Evans è stato tolto il supporto del ventilatore: i medici dell’Alder Hey Hospital, dove il bambino di 23 mesi è ricoverato, e i giudici vogliono Alfie morto. E il più presto possibile.
Sui medici sappiamo già: da almeno nove mesi conducono una battaglia spietata per impedire il trasferimento di Alfie in un altro ospedale e per porre termine alla sua vita “in loco”. All’ultimo momento è spuntato fuori un nemico che non avevano considerato: la realtà. Nelle loro previsioni, servite ai giudici già tre mesi fa per comminare la sentenza di morte, Alfie non avrebbe dovuto sopravvivere che pochi minuti dal momento in cui sarebbe stato staccato dal ventilatore. Macché, Alfie ha cominciato a respirare da solo, e senza convulsioni pur in assenza di farmaci. Passano le ore e Alfie continua a vivere; a quel punto il padre chiede almeno l’ausilio dell’ossigeno e l’idratazione. I medici cercano di evitare, il protocollo non lo prevede. Certo, per il protocollo Alfie doveva essere già morto. Allora l’ossigeno arriva da fuori. Ma guarda un po’, un cordone di polizia impedisce l’ingresso ai soccorritori che, su mandato dell’avvocato degli Evans, devono solo consegnare la mascherina per l’ossigeno che l’ospedale nega. Un muro di poliziotti divide i soccorritori da Thomas; allora la mascherina viene lanciata oltre quel muro umano e Thomas è lesto a raccoglierla e risalire da Alfie.
Alfie ha l’ossigeno, ma non la nutrizione: i medici contavano su questo per chiudere la partita. Ma Alfie va avanti, ostinato, e ieri – per evitare denunce – i sanitari ristabiliscono la nutrizione ma non senza altri tentativi di uccidere il bambino. In tarda mattinata, infatti, si inventano che devono togliere la mascherina dell’ossigeno perché non è un presidio dell’ospedale. «Allora datemene una dell’ospedale», replica Tom. «No, il protocollo non lo prevede», è la risposta. Ancora un braccio di ferro, ancora avvocati e ancora minacce. Alla fine l’ossigeno resta.
Ma poi i medici vanno davanti al giudice a frignare perché nei loro confronti ci sarebbe un clima di ostilità. Ostilità? I forconi ci vorrebbero per questa gente, altro che ostilità.
E non è che i giudici siano da meno. Dopo la sentenza di martedì del giudice dell’Alta Corte Anthony Hayden - per il quale come si sa la vita di Alfie è “futile” – ieri è toccato alla Corte d’Appello di Londra pronunciarsi sul ricorso contro il divieto di trasportare Alfie in un ospedale italiano. Il fatto che a presiedere il terzetto di giudici fosse il nuovo presidente della Divisione Famiglia della Corte d’Appello, sir Andrew McFarlane, aveva suscitato all’inizio qualche speranza. Magari un giudice nuovo, che non ha già trattato il caso, potrebbe avere un occhio diverso. Poi nella sua biografia spunta il particolare che possiede un asino, molto richiesto a Natale per i presepi viventi. Un buon auspicio?
Basta iniziare a seguire il dibattimento e il briciolo di speranza passa in fretta. Si capisce ben presto che non c’è grande empatia con i legali che per la prima volta difendono separati gli interessi del padre di Alfie, Thomas, e della madre, Kate James. Dichiara subito che il punto centrale è il “best interest”, il migliore interesse di Alfie che ormai già una sequela di sentenze ha sancito essere la morte. Si chiede se la libertà di movimento garantita dalla Convenzione europea sui diritti umani potrebbe intaccare il “miglior interesse”, ma evidentemente è una domanda retorica.
Infatti assorbe senza battere ciglio le clamorose menzogne dei legali dell’Alder Hey: «Nessuno ha mai detto che la morte di Alfie sarebbe stata immediata dopo il distacco dalla ventilazione», dice l’avvocato. Strano, perché dagli archivi dei giornali spuntano decine e decine di interviste a medici dell’Alder Hey e resoconti di deposizione in tribunale, in cui è chiaro che i medici hanno sempre sostenuto che Alfie avrebbe resistito pochi minuti senza ventilazione e che questo dato è stato decisivo per le decisioni dei giudici lo scorso febbraio. Poteva sir McFarlane non sapere o aver dimenticato questo particolare? A rispondere positivamente si farebbe torto alla sua professionalità.
Ma sir McFarlane è andato oltre: ha anche accettato che nel giudicare un fatto non sia necessario tenere conto della realtà. È infatti passata liscia l’affermazione dell’avvocato dell’ospedale secondo cui il fatto che Alfie continui a respirare da solo dopo due giorni «non cambia le circostanze». Cioè, il fatto che un bambino sia vivo quando doveva essere morto da almeno 36 ore non fa la differenza. Non fa venire neanche qualche dubbio, neanche un supplemento d’indagine per capire come mai. Vivo o morto è la stessa cosa, il protocollo viene prima. Insomma siamo sempre lì: se la realtà smentisce l’ideologia, tanto peggio per la realtà. Il potere ha già deciso che Alfie deve morire e il fatto che continui a vivere non cambierà le cose.
E infatti nella sentenza sir McFarlane dirà che «siamo nel mezzo di un programma di cure palliative» e non c’è motivo di interromperlo. Strana concezione di cure palliative: si nega ossigeno, idratazione e alimentazione a un bambino di 23 mesi in un ospedale tenuto sotto controllo da un plotone di poliziotti, con i genitori puniti per le loro proteste e costretti a stare in ospedale in condizioni degne di un paese del Terzo mondo.
Insomma: abbiate pazienza che lo finiamo in fretta. E meno male che nel Regno Unito è ancora vietata l’eutanasia.