La legge per cui Charlie Gard non fu il primo a morire così
Ecco il protocollo di accompagnamento alla morte sviluppato a fine anni ’90 nel Regno Unito per il presunto "miglior interesse" del paziente in cui chi poteva presumibilmente morire entro un anno veniva inserito in un elenco chiamato "death list": gli ospedali ricevevano denaro in base al numero di pazienti in lista.
“…fallo sapere, fatelo sapere”, si conclude così il videotestamento di Marina Ripa di Meana dal titolo "Fate sapere ai malati terminali che c'è un'alternativa al suicidio in Svizzera", video realizzato con la collaborazione di Maria Antonietta Farina Coscioni e rilasciato a Radio Radicale pochi giorni prima di morire. L’imperativo finale pronunciato con un filo di voce, di chi esce dalla scena, dalla vita, lanciando un ultimo appello: “si può scegliere di tornare alla terra senza ulteriori e inutili sofferenze”, in breve tempo ha ottenuto mezzo milione di visualizzazioni, suscitando l’interesse di molte persone che in qualche modo si interrogano su temi che prima o poi riguardano ogni famiglia: la sofferenza e la morte.
Ma quale sarà l’effetto di un tale appello? A cosa porterà un tale accorato testamento? Vuole essere uno strumento per chi cerca di portare in Italia l’eutanasia e il suicidio assistito, se non dalla porta principale dalla porta sul retro? Nella lettura dell’intera vicenda, dove si intrecciano parole come suicidio assistito, sedazione profonda, cure palliative, scelta di tornare alla terra, impropriamente accostate, ma facilmente travisabili, viene in mente un parallelo col mondo anglosassone. La sanità inglese qualche anno fa, prima di noi, ha percorso una strada a senso unico verso una forma di eutanasia, non palesemente né legalmente dichiarata, tant’è che è stata battezzata come “euthanasia by the backdoor” (eutanasia dalla porta sul retro), ma la cui rilettura, con i risvolti drammatici annessi, ci dovrebbe far riflettere. Si tratta della storia del Liverpool Care Pathway.
Andiamo con ordine. Il Liverpool Care Pathway for the Dying Patient (LCP), è un protocollo multiprofessionale di accompagnamento alla morte per malati in fin di vita, sviluppato a fine anni ’90, nel Regno Unito dalla Royal Liverpool University e dal Liverpool’s Marie Curie Hospice, con lo scopo di aiutare medici e infermieri ad incrementare la qualità di assistenza nelle cure di fine vita. Si voleva trasferire il modello di eccellenza degli hospice nell’assistere il morente in altri setting di cura e rendere competenti operatori non propriamente specializzati a tale scopo. Maggior attenzione al controllo del dolore, sospensione di trattamenti futili e invasivi, comunicazione con i familiari e loro coinvolgimento nei processi decisionali erano tra gli obiettivi del protocollo. Qualità di assistenza per qualità degli ultimi giorni e ore di vita, dunque.
Raccomandato dal National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) fu accolto e presto diffuso in ospedali, case di cura, assistenze domiciliari del Regno Unito divenendo pratica comune. Dapprima sviluppato per pazienti malati di cancro in fase terminale, fu poi esteso a tutti i pazienti considerati in fin di vita, quindi applicato a pazienti affetti da patologie invalidanti, anche se non in fase terminale. Le maglie si andavano allargando fino a comprendere anche giovani pazienti e neonati disabili. Il presunto miglior interesse del paziente diventava il criterio di inclusione. Veniva individuato chi poteva presumibilmente morire entro un anno di vita, o chi era affetto da patologie invalidanti, veniva inserito in un elenco, chiamato dalla stampa "death list", "lista della morte", e poi inserito in un programma di fine vita, l’LCP. Tra il 2009 e il 2012 quindi il protocollo fu pesantemente criticato dai media, etichettato come “esercizio di caselle di spunta”, equiparato all’eutanasia.
La condanna derivò dalle denunce, sempre più numerose e insistenti, di familiari che vedevano i loro cari morire dopo giorni di sofferenze per fame e sete, con la sospensione delle terapie in corso, oppure in sedazione talmente profonda da non poter nemmeno chiedere cibo e acqua. In taluni casi veniva concessa una spugna da succhiare. Le terribili sofferenze sono testimoniate da medici e infermieri che assistevano tali pazienti. E i diretti interessati o i familiari spesso erano ignari dell’inserimento in tale protocollo LCP. Non si era detto qualità di assistenza per qualità degli ultimi giorni e ore di vita? Coinvolgimento dei familiari nel processo decisionale?
Luglio 2013: il Dipartimento di Salute rilasciò una dichiarazione in cui affermava che l’LCP doveva essere eliminato, phased out, nel giro di 6-12 mesi e sostituito da un approccio individualizzato per ciascun paziente. Insomma, tornare a guardare negli occhi il paziente e non le caselle da spuntare di un protocollo. Si chiedeva inoltre la sospensione degli incentivi per gli ospedali che applicavano tale protocollo.
Incentivi? Soldi? Certo, gli ospedali ricevevano incentivi economici in base al numero raggiunto di pazienti inseriti nel protocollo LCP. Ogni anno il sistema sanitario nazionale registrava 450 000 decessi nelle strutture sanitarie, di cui 130 000 di persone sottoposte a LCP. Il totale dei compensi alle strutture ammontava, secondo una ricerca del The Daily Telegraph, a circa 12 milioni di sterline. Bandito pertanto l’LCP, dopo due anni, nel 2015, uscirono le nuove linee guida del Sistema Sanitario Nazionale (NHS) con una pubblicazione di 32 pagine da parte del National Institute of Health and Care Excellence (NICE): gli addetti ai lavori, tra i quali il Professor Patrick Pullicino direttore di Neuroscienze all’Università di Kent, hanno dichiarato che si trattava delle stesse linee guida rinominate, rimpastate, insomma lo stesso prodotto, con l'aggravante di aver esteso ulteriormente i criteri di inclusione.
Tutto questo in un Paese che è stato culla delle cure palliative moderne, che ha insegnato a tutto il mondo con la sua fondatrice e pioniera, Cicely Saunders, che l’unico vero bisogno di coloro che stanno morendo è non essere lasciati soli, ma essere avvolti da un amore che si prende cura del corpo, come dello spirito, ascoltati in toto, accuditi, curati anche se “incurabili”; non guardati come occupanti abusivi di letti di ospedale, come perdita di risorse economiche per la società, come contenitori di esistenze inutili. Nelle ultime linee guida sono stati apportati alcuni cambiamenti formali, ma quella che è rimasta è la mentalità eutanasica, il poter scegliere chi far morire, quando e come, nel nome di un cosiddetto miglior interesse del paziente e di una mal interpretata morte con dignità. Siamo sicuri di voler la stessa cosa in Italia?