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MEDIO ORIENTE

Gaza, perché è giusto parlare di risposta "sproporzionata"

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Il patriarca Pizzaballa e il cardinale Parolin accusano Israele di risposta "sproporzionata". Non solo i numeri danno loro ragione, ma i fatti dimostrano che Israele sta perdendo la sua anima.

Esteri 25_03_2024 English Español
Gaza bombardata (La Presse)

Il 22 marzo, con il coraggio pacato, che da sempre lo contraddistingue, il patriarca di Gerusalemme ha invitato l’Occidente ad attivarsi per porre fine alla tragedia di Gaza definendo sproporzionata la risposta israeliana alle stragi del 7 ottobre. Coraggio, sì,  perché il cardinale Pizzaballa sa benissimo che sarà contestato duramente per questa presa di posizione. Il 14 febbraio scorso il Segretario di Stato, cardinale Parolin si era permesso di esprimersi nello stesso modo. «Condivido ciò che ha detto il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin», ha detto il cardinale Pizzaballa, «è una risposta sproporzionata. È stato poi molto contestato, con reazioni dure, severe: il problema è che qui ciascuno vuole che tutti siano arruolati a una narrativa contro l’altra, linea che la Chiesa non può assolutamente seguire. Una delle principali difficoltà che incontriamo è proprio far comprendere che la Chiesa ha una narrativa sua, un modo suo di esprimersi, un linguaggio che punta sempre e solo alla pace».

In quell’occasione l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede aveva definito “deplorevoli“ le affermazioni di Parolin salvo poi correggersi con il termine “sfortunate”; una correzione risibile in quanto priva di senso compiuto. E non basta. Il suddetto ambasciatore aveva pensato bene di discolpare Israele accusando l’Occidente, affermando che, mentre per ogni militante di Hamas ucciso avevano perso la vita tre civili, «nelle operazioni Nato in Siria, Iraq e Afghanistan il rateo era di 9 o 10 civili per ogni terrorista. Quindi, la percentuale dell'IDF (l’esercito israeliano), sempre secondo il diplomatico israeliano nel tentativo di evitare la morte dei civili è circa 3 volte superiore, nonostante il campo di battaglia a Gaza sia molto più complicato». Il che è una balla in autentico stile putiniano. In Afghanistan sono rimasti uccisi 52 mila insorti e 46 mila civili ma almeno la metà di questi ultimi sono stati vittime di attentati talebani. In Siria su 95 mila vittime civili, 13 mila sono attribuibili a strike occidentali dato che i russi, ad Aleppo si sono dati molto più da fare in questo senso. Quanto all’Iraq si consiglia la consultazione di Iraq Body Count . Su 120 mila civili uccisi (dal 2003 al 2011), 15 mila sono attribuibili ad azioni della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Tutti gli altri sono attribuibili ad attentati terroristici e, in gran parte, a banditismo. 39 mila gli insorti eliminati.

E così l’Occidente che sostiene a spada tratta il governo israeliano ha ricevuto questo bel contraccambio. E, d’altra parte, date le difficoltà e l’isolamento in cui si trova Israele in questo momento, non ci si poteva aspettare niente di diverso. Criticare il governo israeliano è diventato uno sport estremo, come il bunjee jumping o il parkour; basta poco per sentirsi dare dell’antisemita e questo non solo da parte del governo israeliano, ma anche da parte della stampa italiana, allineata e coperta come in una piazza d’armi. E questo anche si deve premettere, ogni volta,  che il massacro di 1.200 ebrei di ogni età e sesso è stato commesso da subumani sanguinari e che uno stato ha il diritto di difendersi e far sì che scempi simili non accadano. Sì, ma a che prezzo? Con che limite?

Vediamo allora di spiegarci ricorrendo alla storia e ai numeri, cercando di capire perché il cardinale Parolin e poi Pizzaballa abbiano detto quella brutta parola: “sproporzionata”. Nella guerra di indipendenza del 1948, Israele seppe resistere contro ogni aspettativa con la perdita di 6 mila morti contro quella di 20 mila arabi. Nel 1967 con un attacco preventivo del tutto giustificabile, Israele inflisse una sonora disfatta ai paesi arabi con quasi 1.000 morti israeliani e 18 mila arabi. Molto più difficile fu la campagna dello Yom Kippur nel 1973 con 2.800 morti israeliani e 18 mila arabi. Dopo la campagna del Libano (654 caduti israeliani dal 1982 al 1985) vi sono almeno quattro campagne militari contro Gaza negli anni 2008, 2014 e 2021 con 98 morti israeliani (quasi tutti militari) e 3.900 morti palestinesi (in gran parte civili).

Si può calcolare che i morti di tutte le nazioni arabe, solo nelle guerre arabo israeliane, in settantacinque anni, siano almeno 70 mila. Ebbene gli ultimi dati relativi alla battaglia di Gaza, in corso dal 7 ottobre 2023, riferiscono, ad oggi 23 marzo 2023, di 32 mila palestinesi uccisi di cui 13mla miliziani (secondo il governo israeliano) con 74 mila feriti e 8 mila dispersi, probabilmente ancora sepolti sotto le macerie.  Tutto questo in una popolazione numerosa quanto quella della provincia di Torino, racchiusa in uno spazio equivalente alla provincia di Prato e in meno di sette mesi. E a ciò si aggiungono almeno 442 palestinesi uccisi in Cisgiordania da esercito e coloni.

Un altro raffronto può dare l’idea della “sproporzione” rimproverata a Parolin. Nel corso della Seconda guerra mondiale l’Italia ha avuto 26 mila morti civili sotto i bombardamenti alleati dal 1940 all’8 settembre 1943 e altri 40 mila da tale data alla fine della guerra. I nazifascisti, in venti mesi, hanno ucciso 15 mila civili.

Ciò che, purtroppo, si deve constatare, è che i valori che contraddistinguevano la società israeliana di un tempo, pur essendo una nazione in guerra e che si difendeva con grande durezza, non ci sono più. La pratica del fuoco libero adottata dall’esercito israeliano in questi mesi non è più quella degli anni Settanta e Ottanta, nemmeno quando si tratta di salvare le vite dei propri cittadini che, per una Golda Meir, era sacra pur non scendendo a patti coi terroristi. Tre ostaggi israeliani sono stati uccisi per errore dal proprio esercito il 16 dicembre e così l’avvocato israeliano Yuval Doron Kastelman che, il 1 dicembre, a Gerusalemme, aveva eroicamente difeso dei civili contro terroristi palestinesi. Inutilmente Kastelman aveva gettato la pistola proclamando di essere ebreo. È stato abbattuto spietatamente secondo una prassi che rispecchia la sostanziale impunità di cui godono i militari israeliani oggi. E il commento di Nethanyau è stato «Così va la vita. Cose che succedono», suscitando l’ira dell’ex generale Benny Gantz.

Di questo imbarbarimento è un appropriato simbolo la ministra May Golan che ha detto «Sono personalmente orgogliosa delle macerie di Gaza e che ogni bambino palestinese, anche tra 80 anni, saprà raccontare ai suoi nipoti cosa hanno fatto gli ebrei». Aggiungiamoci anche il saccheggio indiscriminato e impunito delle case palestinesi come denunciato da un giornale indipendente israeliano. E dobbiamo aggiungere l’ennesima strage del 29 febbraio dove l’esercito israeliano ha sparato sulla folla che cercava disperatamente di prendere generi alimentari per non morire di fame. Saranno le autopsie a dire quanti, delle 104 vittime sono morti uccisi dai proiettili o dalla calca ma va subito precisato che l’”incidente” è l’esito di una condotta spietata adottata dal governo israeliano in questi cinque mesi di guerra.

La Storia ha fatto il suo giro. Come diceva La Nuova Auschwitz una vecchia, profetica canzone “non è possibile essere come loro/non è difficile essere come loro”. Eppure in Israele non si è spenta la fiamma della speranza. Vi sono attivisti ebrei che difendono i palestinesi dalle violenze dei coloni e dell’esercito; il quotidiano Haaretz e con esso altri giornali indipendenti, resistono alla deriva sovranista e autoritaria della “democratura” di Nethanyau e stigmatizzano con grande forza coloro che, in nome di una solidarietà ebraica, finiscono per allinearsi alla destra più estrema. Il regista israeliano Yuval Abraham ha vinto l’Orso d’oro al festival di Berlino con un documentario sull’oppressione dei palestinesi in Cisgiordania e, per questo, viene tacciato di antisemitismo mentre è soltanto antifascista da qualsiasi parte e di qualsiasi colore sia il nuovo fascismo. Israele rischia di perdere la propria anima come ha scritto Aluf Benn, in un magnifico saggio su Foreign Affairs.  

In esso Benn ricordava il discorso funebre tenuto in memoria del giovane Roi Rotberg, mutilato e assassinato da palestinesi nel 1956. «Non diamo la colpa agli assassini. Per otto anni sono rimasti nei campi profughi di Gaza e davanti ai loro occhi abbiamo trasformato le terre e i villaggi in cui vivevano loro e i loro padri in nostre proprietà». Chi disse queste parole non era antisemita e neppure negava il diritto di Israele a difendersi. Era niente meno che Moshe Dayan, il generale artefice del trionfo del 1967 e che, come tanti generali israeliani (da Ytzhak Rabin a Ehud Barak) sono stati capaci di vincere le guerre per pensare alla pace, senza cercare “soluzioni finali” ma assumendosi la responsabilità, di anno in anno, di generazione in generazione, di combattere duramente ma di mantenersi umani e cercare un compromesso tra giustizia e sicurezza. Così Israele ha salvato, sinora, la propria anima.