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CHIESA E MAFIA

A quale Antimafia giochiamo?

Il vescovo di Palermo dice che la Chiesa deve chiedere scusa per le omissioni sulla Mafia lasciando intendere che ora c'è una Chiesa, quella di Francesco, che opera un vero cambio di passo. Ma la Chiesa ha fatto antimafia nei confessionali più che nelle conferenze. Infatti la stessa Cei ha rifiutato questa lettura "militante". Però di fronte alle mafie degli scafisti si chiude volentieri gli occhi. 

Editoriali 11_03_2018

L’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice è intervenuto a un convegno del Centro Studi Pio La Torre per parlare di Chiesa e Mafia. O meglio, di come la Chiesa di Francesco affronta il suo rapporto con la Mafia. Infatti il titolo dell’incontro, che ha visto protagonisti anche giovani e professori era proprio questo: “Il ruolo della Chiesa di Papa Francesco nel contrasto alle mafie, alla corruzione, alla povertà e alle diseguaglianze sociali”. 

La moda del cambio di paradigma ha investito anche questo tipo di argomenti sociali. Dici Chiesa di Papa Francesco e ci si immagina che la Chiesa improvvisamente non sia più di Cristo, ma di questo o di quel Papa, come si trattasse di un partito politico. Intanto però l’impostazione del discorso prende subito una piega rivoluzionaria, come se prima di Papa Francesco la Chiesa non avesse parlato a sufficienza contro il fenomeno mafioso. Infatti le parole centrali del discorso del primate di Sicilia vanno proprio in questo senso, che sembra volto a scrivere una letteratura da cambio di passo: «Dobbiamo chiedere perdono per quanto la Chiesa non ha fatto nel passato nei confronti della mafia. Per quanto la Chiesa sia stata omissiva, per quando abbiamo annunciato ma non praticato valori evangelici a difesa di una terra violentata dalla mafia». 

Il giro mentale che si vuole provocare è quello che prima di Papa Francesco la Chiesa non abbia fatto sostanzialmente nulla contro i clan, anzi, spesso ne sia stata complice. Ma per dare corpo al suo pensiero il vescovo si serve di esempi di martiri che però sono stati uccisi molto prima: don Pino Puglisi, don Peppe Diana e il giudice Rosario Livatino. Martiri cristiani, per i quali sono avviati e già conclusi processi di canonizzazione e che hanno versato il loro sangue proprio in quel periodo storico, gli anni ’80 e ’90 che viene preso a modello come periodo in cui la Chiesa invece era complice. Bisognerebbe mettersi d’accordo allora. Teorizzare infatti un cambio di passo della Chiesa grazie a Papa Francesco e poi servirsi di martiri che sono stati uccisi molto prima, non sembra essere una ricostruzione dei fatti molto rigorosa.

Le parole di Lorefice in realtà sono il frutto di una mentalità antimafia in contrasto con l’antimafia portata avanti dal resto dei vescovi, i quali non vivono di complessi di inferiorità circa i silenzi e le omissioni, ma sanno che è nel segreto dei cuori che la Chiesa ha convertito i mafiosi e asciugato le lacrime delle vittime. 

Ne è prova lo scontro tra il segretario della Conferenza Episcopale Italiana Nunzio Galantino e il Tavolo 13 del Ministero della Giustizia che ha visto tra i suoi partecipanti, almeno formalmente, proprio il vescovo di Palermo, che con questo ultimo incontro risponde implicitamente alla critica iniziale. 

In quel documento infatti, di cui i lettori della Nuova BQ sono stati informati, si denunciava il silenzio quando non addirittura la complicità della Chiesa rispetto al fenomeno mafioso e si rimproveravano i vertici ecclesiali italiani di non aver voluto dare un contributo a quel lavoro che, tra le conclusioni più eclatanti, proponeva di costituire un osservatorio del Ministero della Giustizia per monitorare le prediche dei preti in chiave antimafia. 

Per quanto Lorefice abbia sostenuto di non aver mai fatto parte di quel tavolo, nonostante il suo nome comparisse ancora tra i partecipanti ben dopo la sua presentazione, le sue parole al centro Pio La Torre sono la conclusione programmatica di quel lavoro: c’è una Chiesa silente del passato complice con la Mafia e una Chiesa oggi che fa l’Antimafia vera. E pazienza se nel documento licenziato da autorevoli esperti e non, oltre a citare i casi dei martiri cristiani della Mafia, non si portavano che pochissimi singoli casi isolati di preti o religiosi compromessi con i clan: il messaggio che deve passare è questo. 

Ma è un messaggio miope che dimentica che l’Antimafia vera si fa in un cambio di cultura che deve avvenire prima che nelle conferenze, nella cultura e nella conversione dei cuori. Insomma: l’Antimafia della Chiesa è stata fatta nei confessionali, più che nelle iniziative eclatanti. Questo aspetto è sempre tenuto molto in ombra perché un mafioso, sia esso un galoppino o un mammasantissima, che cambia vita non fa notizia secondo i canoni dell’Antimafia militante. La quale antimafia invece vive di cliché e luoghi comuni. Una miopia che cela una visione ideologica e a tesi preconfezionate. 

La stessa che si riscontra nell’argomento correlato del convegno: i migranti.

Non è un caso, ma proprio nel citare i profughi accolti a Lampedusa, Lorefice ha imputato la responsabilità a «un sistema economico, finanziario e politico che abbiamo costruito e che per alimentarsi e continuare a vivere nei suoi lussi ha bisogno che una parte sia scartata e questa parte può chiamarsi Africa o medio oriente». Si tratta del solito tentativo di instillare il senso di colpa antioccidentale attraverso una lettura un po’ cattocomunista della tragedia dei migranti, che sfrutta i vecchi slogan dell’Europa capitalista e cattiva e che guarda caso dimentica che quello dei migranti è invece un mercato degli schiavi alimentato da una mafia africana ben più potente e nascosta e per certi versi protetta: quella degli scafisti e dei mercanti di uomini. Una mafia che i poteri europei faticano a riconoscere e a combattere e che per certi versi gli serve per promuovere politiche immigrazioniste che molti cattolici oggi sembrano blandire con convinzione e un po’ per interesse. Forse, a proposito di sensi di colpa, sarebbe bene indirizzare gli strali altrove.