Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Cecilia a cura di Ermes Dovico
ANNIVERSARI ROSSI

L'intramontabile mito del Che, il messia dell'odio

“Martire”, “combattente”, “poeta”. Nel 50mo anniversario della morte di Che Guevara, ieri, se n’è sentite di tutte. Il mito è ancora intatto, anche se ormai del Che si conoscono anche tutti i crimini che commise nell'edificare il totalitarismo cubano. Spinto da un odio che trasforma l'uomo in una "macchina per uccidere".

Editoriali 10_10_2017
Che Guevara

“Martire”, “combattente”, “poeta”. Nel 50mo anniversario della morte di Che Guevara, ieri, se n’è sentite di tutte, in ogni servizio televisivo e giornalistico, sulle Tv nazionali. Al massimo si aggiunge “chiaroscuro” per definire il suo curriculum. Tutt’al più: “controverso”, giusto per apparire imparziali. Ma Che Guevara, a mezzo secolo dalla sua uccisione, pare essere stato un misto fra Garibaldi (per chi ama il genere) e Madre Teresa («Credo in una sola Chiesa, che va da Che Guevara a Madre Teresa» cantava Jovanotti). Eppure del Che si sa tutto, ormai. I suoi crimini sono noti. La lista è lunga. Perché il mito continua?

La prima citazione che viene in mente di Che Guevara è tutt’altro che una frase da bigliettino nei cioccolatini. Esaltò l’odio, letteralmente, nella Conferenza Tricontinentale: «L’odio come fattore di lotta, l’odio intransigente verso il nemico, che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Non certo le stesse cose che diceva Madre Teresa. Il Che visse come un trauma il suo celeberrimo viaggio in motocicletta nell’America Latina. Vide la miseria e la malattia. Ma evidentemente non ne trasse alcun messaggio d’amore, bensì un odio apocalittico. Una voglia di distruzione del vecchio mondo e costruzione di un mondo e di un uomo nuovo che è testimoniata dalla sua posizione estrema nella crisi dei missili sovietici a Cuba, che nel 1962 portò il mondo sull’orlo del baratro della guerra nucleare. «Se i missili fossero rimasti – disse in seguito il Che - noi li avremmo utilizzati contro il cuore degli Stati Uniti, tra cui New York. Non dobbiamo mai stabilire una convivenza pacifica». Non temeva (anzi pareva auspicare) l’Olocausto nucleare: «Quello che affermiamo è che dobbiamo proseguire sulla via della liberazione, anche se questo costa milioni di vittime atomiche». Aveva idee chiare anche su come amministrare la giustizia: «Non abbiamo bisogno di una prova per l'esecuzione di un uomo. Abbiamo solo bisogno della prova che è necessario giustiziarlo». E come controllare il dissenso: «Dobbiamo eliminare tutti i giornali. Non siamo in grado di fare una rivoluzione con una stampa libera».

Dalle parole, durissime («ma senza perdere la tenerezza», come disse lui stesso e come amano ricordare i suoi estimatori), il Che passò subito ai fatti sin dal giorno in cui la rivoluzione di Castro trionfò a Cuba. Nel 1959, Guevara divenne procuratore. Nel carcere della Cabanha, sotto sua diretta responsabilità, si eseguivano fucilazioni tutti i giorni. In sei mesi vennero "liquidati" dalla sua Commissione per la Purificazione 180 prigionieri politici. Nel 1960 mette in piedi il primo gulag cubano nella penisola di Guanaha. Funzionava come i gulag dell’Unione Sovietica: lavori forzati, torture, esecuzioni sommarie, disumanizzazione dei prigionieri. Definito un «partigiano dell’autoritarismo fino al midollo» dal suo ex compagno di lotta Regis Debray, fu Guevara, ancor più di Castro, a importare a Cuba un sistema di governo e repressione puramente staliniano.

Probabilmente la sua fama fu dovuta unicamente alla scelta di esportare la rivoluzione all’estero, fra Africa e Sud America. Morì da combattente, catturato sul campo dalle forze anti-insurrezionali della Bolivia e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo, esposto al pubblico e fotografato, è spesso paragonato a una Deposizione atea. Il suo volto, nel ritratto più celebre del fotografo Alberto Korda, ha lo sguardo ispirato di un messia. Per il pubblico più colto, è proprio nel suo messianesimo marxista che risiede il suo fascino. Ma è un culto della morte, anche se ben mascherato da speranza. Il giornalista Dario Fertilio, nel suo Il Virus Totalitario, la descrive come una «filosofia della tabula rasa, al piacere di ripartire da zero cancellando il già tentato e realizzato, senza pietà per coloro che vengono scartati dal programma, trucioli del vecchio mondo destinati all’inceneritore della distruzione creatrice». E’ il “paradiso” in terra sognato dai marxisti. Inevitabilmente ha garantito la nascita di inferni terrestri, ovunque sia stato sperimentato. Ma il Che è sopravvissuto alla disillusione perché non ha mai assistito al suo fallimento. Non invecchiò, non divenne un gerarca, non attraversò la fase di “burocratizzazione” della dittatura più longeva del mondo.

Per il pubblico meno colto, il volto del Che stampato su magliette e cover dei cellulari, spille e tatuaggi, è solo un logo del perfetto «giovane che vuol cambiare il mondo». Ed è la nemesi perfetta per un uomo che dedicò la vita (e la perse) nella lotta contro il capitalismo: diventare un diffuso brand di successo.