Le intenzioni del Papa non cambiano la dottrina
La pubblicazione negli Acta Apostolicae Sedis di due documenti che introducono la prassi della comunione per i divorziati risposati, riflette chiaramente la volontà del Papa ma non ha la forza di cambiare ciò che la Tradizione ci ha trasmesso. Ecco cosa fare.
Recentemente è stato resto noto che il 5 giugno scorso papa Francesco aveva ordinato la pubblicazione negli Acta Apostolicae Sedis di due documenti, specificando che essi costituiscono «magisterium authenticum»: si tratta di una lettera con cui egli approvava i provvedimenti adottati dai vescovi della regione ecclesiastica di Buenos Aires per applicare nel proprio territorio le direttive pastorali dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia (AL), e del testo di quel pronunciamento episcopale. La pubblicazione di questi documenti ha fatto esultare alcuni cattolici che ne hanno assunto la difesa d’ufficio contro altri cattolici (non esclusi autorevoli teologi e nemmeno alcuni eminenti uomini di Chiesa, come ad esempio i cardinali Raymond Leo Burke, Carlo Caffarra, Walter Brandmüller, Joachim Meisner, Robert Sarah e Gerhard Ludwig Müller), etichettati come «nemici del Papa».
La soddisfazione di quelli che si autodefiniscono «amici di Francesco» è motivata dal fatto che, secondo loro, Francesco ha voluto mettere fine alle critiche sulla presunta ambiguità di AL eliminando ogni dubbio circa la sua volontà che, a certe condizioni, i «divorziati risposati» possano accedere alla comunione eucaristica, pur continuando a convivere "more uxorio". In effetti, il Papa scrive nella sua Epistola apostolica che il documento dei vescovi argentini «spiega in modo eccellente il capitolo VIII di Amoris laetitia. Non ci sono altre interpretazioni». A questo punto, sembra che abbiano “vinto” loro, i presunti «amici del Papa», nella loro rabbiosa polemica contro chi osava proporre “dubia” o addirittura una “Filialis correctio”. Si deve dire, con alcuni di essi, «Roma locuta, quaestio finita»? Purtroppo (per loro e per tutti), no: la questione di fondo resta aperta.
1) Tanto per cominciare, anche quest’ultimo pronunciamento magisteriale è suscettibile di diverse interpretazioni, non essendo affatto evidente che l’approvazione della soluzione adottata dai vescovi della regione di Buenos Aires implichi la delegittimazione delle soluzioni adottate da altri vescovi, sia in senso decisamente restrittivo (come hanno fatto i componenti della conferenza episcopale polacca, molti vescovi africani e l'arcivescovo di Philadelphia Charles Chaput), sia in senso decisamente più permissivo (come hanno fatto i componenti della conferenza episcopale tedesca o quelli della conferenza episcopale filippina). E non si deve dimenticare che lo stesso Francesco, riferendosi al dibattito che c’era stato durante il Sinodo, riconosceva all’inizio della AL che non sarebbe giusto escludere che «esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano», motivo per cui «in ogni regione o Paese si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali».
Insomma, di potrebbe dire, parafrasando un Leitmotif del magistero di papa Francesco, che quella dei vescovi argentini è soltanto una «scelta preferenziale». Se è così, resta aperta la questione se, al di là delle diverse interpretazioni o applicazioni pastorali, il “nucleo dogmatico” di AL (ossia la dottrina sul Matrimonio in relazione con la Penitenza e con l’Eucaristia) sia in perfetta continuità con il magistero ecclesiastico precedente oppure lo contraddica in punti fondamentali.
2) Secondariamente, non è affatto chiaro il significato di «magistero autentico» applicato ai due documenti, perché nemmeno essi tolgono ogni dubbio sulla compatibilità delle direttive di AL con i principi dottrinali che ispirano le norme del Codice di diritto canonico, che fa espresso divieto di concedere la comunione eucaristica a coloro che «ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (canone 915). Le argomentazioni canonistiche prodotte a titolo privato dal cardinale preposto all’interpretazione autentica dei testi legislativi (cfr Francesco Coccopalmerio, Il capitolo ottavo della Esortazione Apostolica Post Sinodale “Amoris Laetitia”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017) rappresentano anch’esse una difesa d’ufficio dalla AL, ma non entrano nel merito del problema perché fingono di ignorare che nessuna norma di legge può essere considerata abolita sulla base di discorsi vaghi e ambigui, non accompagnati peraltro da decreti legislativi adeguati.
Va riconosciuto, comunque, che una cosa almeno viene definitivamente chiarita da questo ultimo atto magisteriale di papa Francesco: è la sua ferma intenzione di introdurre nella Chiesa una nuova prassi, diversa da quella che era stata sancita dal suo predecessore san Giovanni Paolo II con l’esortazione apostolica post-sinodale Familiaris consortio (1981), che ben si armonizzava con tutta la Tradizione dogmatico-morale e con le norme che si ritrovano oggi nel Codice di Diritto Canonico. Una prassi che viene a legittimare quanto già veniva fatto (abusivamente) in molte regioni del mondo cattolico, a cominciare dalla Germania, dal Belgio e dall’Olanda, per volontà delle conferenze episcopali di quei paesi. Si tratta di un’intenzione di cambiamento della prassi pastorale nei confronti di quei fedeli che chiedono di essere ammessi alla comunione sacramentale pur trovandosi in una condizione di vita (esterna, pubblica) che fa legittimamente presumere che non siano in «stato di grazia santificante».
In che consiste tale cambiamento? Consiste nella pubblica accoglienza di questi fedeli nella comunità visibile, ossia nella vita sociale della comunità cristiana, dove il Vescovo e i presbiteri sono pronti a un fraterno dialogo di “discernimento”, per verificare, caso per caso, se quei fedeli non siano, malgrado le apparenze, in «stato di grazia santificante» e possano quindi accedere direttamente alla Comunione, oppure possano recuperare lo stato di grazia con la Confessione, pur non volendo o non potendo cambiare la loro «situazione oggettiva di peccato».
Ma se ora è fuori di dubbio che questa era l’intenzione del papa nel pubblicare la AL, restano – anzi, aumentano – i dubbi circa la dottrina che dovrebbe giustificare la nuova prassi. Non si può ignorare che qualsiasi decisione che la suprema autorità della Chiesa voglia assumere riguardo alla prassi pastorale implica sempre dei criteri dottrinali, indipendentemente dal fatto che siano formalmente enunciati oppure restino impliciti. Tradizionalmente, quando sembra difficile far comprendere e far accettare determinate decisioni agli operatori della pastorale e ai semplici fedeli – ed è il caso di quelle novità sconcertanti che seguono a una radicale riforma – l’autorità della Chiesa si premura di esporre con la massima chiarezza quei criteri dottrinali. Ciò non è avvenuto con la AL, che – come ho sempre sostenuto nelle mie pubblicazioni al riguardo – si esprime in modo «volutamente ambiguo» circa le ragioni dottrinali che consiglierebbero la nuova prassi. E il motivo di tal voluta ambiguità è, presumibilmente, la consapevolezza che la dottrina che ispira la nuova prassi è chiaramente contraria alla Tradizione e riflette teorie teologiche chiaramente eretiche, come la Correctio filialis ebbe a denunciare. I cinque “dubia” che in precedenza erano stati presentati al papa dai quattro cardinali avevano appunto questo scopo: indurre papa Francesco a riformulare le direttive pastorali in modo da eliminare da esse quei presupposti dottrinali che possono sembrare ereticali.
Con questo suo ultimo gesto – la pubblicazione di una formale convalida di quanto avevano scritto i vescovi argentini – papa Francesco ha fatto proprio il contrario: invece di riformulare le direttive pastorali in modo da eliminare da esse quei presupposti dottrinali che paiono a molti ereticali, ha mostrato disinteresse per la discussione sui principi e ha ribadito la sua intenzione di riformare ab imis la prassi pastorale della Chiesa universale nella direzione che gli era stata indica dal cardinale Walter Kasper e da un’agguerrita minoranza di vescovi durante i lavori del Sinodo sulla famiglia (cfr i contributi di vari autori pubblicati in Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, a cura di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2015). E questa corrente teologico-pastorale che ha suggerito a papa Francesco le soluzioni adottate nella AL le sta adesso giustificando, in polemica con i critici, ricorrendo a tante, troppe argomentazioni retoriche, una in contrasto con l’altra, sicché i fedeli che continuano a nutrire dei dubbi sui principi dottrinali che ispirano la nuova prassi di AL si trovano in uno stato d’animo che io continuo a definire di vero e proprio «disorientamento pastorale».
A questo punto, se mi si domanda che cosa deve fare un cristiano che vede nel Papa, chiunque egli sia, il Vicario di Cristo, dirò che ogni decisione coerente con la fede deve prescindere da considerazioni troppo umane e da ogni “partito preso”. E deve riferirsi concretamente alle diverse condizioni personali.
1) Se si tratta di uno dei principali destinatari della AL, ossia di un vescovo, egli deve prendere in seria considerazione l’appello alla misericordia di papa Francesco, applicandolo prudentemente alla realtà della sua diocesi, in forza di quel senso di irrinunciabile responsabilità nei confronti del popolo a lui affidato che gli deriva dal suo specifico munus pastorale. Egli dunque adopererà il retto discernimento di fede per decidere se e come eseguire le indicazioni dell’esortazione apostolica post-sinodale e quelle eventuali della conferenza episcopale di riferimento, che per la loro stessa natura non sono da intendersi come prescrizioni canoniche assolutamente obbliganti. Io personalmente conosco bene alcuni casi di esemplare condotta di vescovi diocesani che hanno vissuto in piena coerenza sia il dovere di conservare l’unità del collegio episcopale con a capo il Papa, sia il dovere di esercitare responsabilmente la discrezionalità che la stessa legge canonica prevede (cfr Giuseppe Siri, Dogma e liturgia, Leonardo da Vinci, Roma 2015; Mario Oliveri, Un vescovo scrive alla Santa Sede sui pericoli pastorali del relativismo dogmatico, Leonardo da Vinci, Roma 2017).
2) Se poi si tratta di uno dei destinatari diretti ma subordinati della AL, ossia di un sacerdote in cura d’anime, egli deve mettere fedelmente in pratica i criteri di “misericordia” e di “accompagnamento” suggeriti da papa Francesco, senza però considerare “superati” o “aboliti” (perché AL non li ha esplicitamente dichiarati superati né può abolirli) i precetti della legge morale naturale e della legge evangelica che il diritto canonico vigente ha codificato per regolare santamente la prassi pastorale dei Sacramenti. Egli quindi non concederà l’assoluzione sacramentale a quelle persone delle quali conosce la situazione “irregolare” se prima non avrà accertato, in foro interno (ossia in un colloquio personale), che quel fedele è effettivamente pentito, vuole davvero riparare il danno causato agli altri membri della Chiesa ed è fermamente deciso a non peccare più (il che implica la volontà di uscire dalla situazione nella quale si trova per sua colpa, al netto di tutte le circostanze che possono averne limitato la libertà di azione).
Ora, per accompagnare il penitente in questo arduo cammino di conversione, il confessore dovrà impegnarsi fin dall’inizio a illuminare la sua coscienza con la dottrina del Vangelo, rendendolo consapevole di aver mancato al dovere di fedeltà matrimoniale (per il fatto di aver abbandonato il coniuge e di essersi unito ad altra persona) e al dovere di dare testimonianza della propria fede cattolica (per il fatto di aver chiesto all’autorità civile il riconoscimento pubblico del divorzio e della nuova unione coniugale). Il ministro del sacramento della Penitenza ha non solo il dovere, giustamente ricordato da papa Francesco, di praticare la comprensione e la misericordia nei confronti di ogni penitente, ma anche il dovere di giudicare, graviter onerata conscientia, se esistono o meno, nel penitente, le condizioni per ottenere il perdono da parte di Dio e con esso il ripristino della grazia santificante, ossia il pentimento, l’accusa sincera, il proposito di emendarsi e di riparare. Se il confessore non ha l’evidenza di tali condizioni e assolve ugualmente il penitente, non amministra validamente il sacramento, a danno del penitente stesso e della Chiesa intera.
3) Infine, se si tratta di uno dei destinatari indiretti della AL, ossia di un comune fedele, sia ecclesiastico che laico, costui è tenuto anche oggi a rispettare e venerare il Papa, chiunque egli sia, senza per questo sentirsi obbligato a considerare de fide divina et catholica ciò che egli ha proposto, non come una precisa dottrina dogmatico-morale ma solo come vaghi e contraddittori argomenti filosofico-teologici a sostegno delle sue indicazioni pastorali. Come ho già detto, il fatto di includere formalmente la dottrina della AL tra i documenti del magistero ordinario del papa non implica che essa sia sostanzialmente tale da vincolare tutti i fedeli all’assenso, come parte del sistema della fede. Di conseguenza, un comune fedele, soprattutto se è un teologo, non deve sentirsi in coscienza privato della libertà di pensiero per quanto riguarda un proprio giudizio sulla prassi voluta da papa Francesco, la quale, a parere di molti cattolici competenti (ad esempio i filosofi Robert Spaemann, Stalislaw Gryegel e Joseph Seifert, oltre ai teologi firmatari della Correctio filialis, tra i quali notoriamente ci sono anch’io), comporta il rischio di contribuire alla diffusione delle eresie nella Chiesa di oggi.
Si tratta – ripeto ancora una volta, sperando che questa precisazione sia finalmente recepita anche da chi finora ha preferito alimentare sterili polemiche di parte – di legittime opinioni espresse con prudenza e misura da fedeli cattolici che sono solleciti del bene comune ecclesiale e constatano, vivendo in mezzo alla gente, che la prassi consigliata da papa Francesco non contribuisce all’unità della Chiesa nella fede e nella carità. In spirito di leale collaborazione ecclesiale, è lecito esprimere le proprie opinioni sull’opportunità di determinati atti di governo e di determinati indirizzi pastorali del Pontefice regnante. Non si tratta certamente di giudizi perentori (apodittici, dogmatici), su materie di fede e di morale che l’autorità ecclesiastica ha il compito di insegnare autorevolmente come facenti parte della divina rivelazione, quale è stata donata al mondo da Cristo ed è stata finora infallibilmente custodita e interpretata dalla Chiesa. Ha torto quindi chi accusa me e gli altri firmatari della Correctio filialis di aver voluto «condannare senza discutere» (cfr Rocco Buttiglione, Risposte amichevoli ai critici di “Amoris laetitia”, Ares, Milano 2017). Se è vero che talvolta alcuni espongono le loro opinioni (legittime) in in modo eccessivamente polemico (ad esempio i firmatari della dichiarazione intitolata Fedeli alla vera dottrina, non ai pastori che sbagliano), non è certamente questo il mio modo di servire la fede del popolo di Dio, nella fedeltà a Cristo e quindi ai Pastori da Lui istituiti.
A «condannare senza discutere» i Pastori della Chiesa di Cristo sono stati piuttosto quei «teologi del dissenso» che per oltre mezzo secolo hanno contestato sistematicamente i papi che hanno preceduto Francesco (Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI). Emblematico è il caso di Hans Küng, il quale ha davvero condannato senza discutere tutto il magistero di quei pontefici, come si può agevolmente verificare consultando il mio trattato su Vera e falsa teologia, Leonardo da Vinci, Roma 2017, pp. 296-301). E oggi sono quegli stessi «teologi del dissenso» a ergersi a difensori di un Papa che essi considerano portatore delle loro idee (cfr Antonio Livi, Come la teologia neomodernista è passata dal rifiuto del Magistero ancora dogmatico all’esaltazione dei un Magistero volutamente ambiguo, in Teologia e Magistero, oggi, Leonardo da Vinci, Roma 2017, pp. 59-86). Se costoro praticano oggi il “culto della personalità” nei confronti di Francesco non è certamente perché vedano in lui, come in ogni altro papa, il Vicario di Cristo, ma perché lo considerano il portabandiera delle loro militanza ideologica.
Ben diverso è il caso di quei fedeli che si avvalgono della loro competenza in campo giuridico-morale per rilevare come la cattiva teologia sul matrimonio implichi l’abbandono delle certezze relative alla legge morale naturale (cfr Carlo Testa, L’ordine giuridico e l’ordine morale. Riflessioni sul diritto naturale e sulla deontologia dei giuristi a proposito della “Correcto filialis” a papa Bergoglio, Introduzione epistemologica di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2017).