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MEDIO ORIENTE

Guerre e destabilizzazione, paghiamo gli errori di Biden

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Laddove Trump aveva posto le basi per un equilibrio in Medio Oriente con gli Accordi di Abramo, l'attuale amministrazione USA ha incoraggiato l'Iran nella sua opera di destabilizzazione. Un disastro diplomatico.

Editoriali 15_04_2024 English
Joe Biden con il team della Sicurezza nazionale

L'attacco notturno dell'Iran a Israele mediante droni e missili balistici, supportato da Hezbollah, appare al momento ancora come un modo, per il regime di Teheran, di uscire con il minimo dei danni dall'angolo militare e politico in cui Israele lo aveva cacciato con il raid contro l'ambasciata iraniana a Damasco del 1 aprile, in cui erano rimasti uccisi alcuni suoi alti esponenti, tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi.

Il governo degli ayatollah, infatti, si era ritrovato di fronte a una alternativa molto scomoda. Non poteva lasciare la sfida israeliana senza risposta per non perdere la faccia di fronte ai suoi “vassalli” e alleati come Hezbollah, Hamas e Siria, né il consenso nazionalista interno. Ma non poteva nemmeno rispondere in maniera così aggressiva da provocare una guerra aperta con lo Stato ebraico.

Perché un conflitto totale provocato da Teheran fornirebbe a Israele l'assist ideale per uscire dalla difficile situazione in cui si è trovato dopo il 7 ottobre: quella di dover estirpare Hamas dalla Striscia di Gaza attirandosi valanghe di critiche “umanitarie”, benché generalmente in malafede ed alimentate dall'odio antiebraico. E ricompatterebbe tutto l'Occidente a sostegno degli israeliani, mentre la Russia, concentrata in questo momento su ben altre priorità strategiche, non potrebbe dare a Teheran altro che un appoggio più o meno “platonico”.

Il “decorso” della nuova crisi in un'azione prevalentemente dimostrativa (alla luce della nota efficienza del sistema di difesa antimissile israeliano Iron Dome), volta più che altro a rilanciare la palla nel campo del governo di Benjamin Netanyahu, appariva dunque prevedibile. Ciò non vuol dire, naturalmente, che l'episodio sia meno preoccupante, e che in prospettiva non aumentino i rischi di ulteriori focolai bellici nell'area mediorientale, anche gravi, in una situazione politica mondiale già tesisssima per una serie ben nota di fattori.

L'azione iraniana si configura come l'ennesimo episodio della ormai proverbiale “terza guerra mondiale a pezzi” (secondo la nota definizione data a suo tempo da papa Francesco), ma in un clima in cui i singoli “pezzi” si avvicinano e si collegano sempre più tra loro, accrescendo le probabilità che una scintilla faccia scoppiare un incendio generale, e che la situazione vada fuori controllo. I singoli fronti di crisi aperti non si possono considerare indipendenti e casualmente affiancati, ma sono evidentemente uniti da un complesso meccanismo di reazioni e contro-reazioni, per cui si alimentano costantemente a vicenda.

Proprio se la si osserva da questo punto di vista, l'attuale nuova crisi tra Israele e Iran appare particolarmente grave e inquietante. Innanzitutto non va trascurato il fatto che l'attacco iraniano, nonostante decenni di minacce, tensioni e ritorsioni, è stato il primo atto bellico diretto del regime di Teheran contro Gerusalemme, e quindi un altro “tabù” nello scenario dei conflitti mediorientali con esso è caduto, aprendo la strada a sviluppi potenzialmente incontrollabili.

In secondo luogo, non è ancora chiaro se ci sarà un'ulteriore risposta israeliana, e in caso affermativo fino a che punto Netanyahu si spingerà nel continuare a portare avanti il braccio di ferro con gli ayatollah. Si potrebbe ipotizzare che Gerusalemme ritenga più conveniente per i suoi interessi chiudere per il momento il contenzioso qui (sempre che non vi siano ulteriori atti ostili da parte iraniana), incassando la solidarietà occidentale e apparendo come la parte in causa più “moderata”.
Ma si potrebbe supporre anche, all'opposto, che il premier israeliano, ancora alla ricerca di una ricostruzione del proprio consenso interno dopo il terribile smacco del 7 ottobre e degli ostaggi mai liberati, scelga di cogliere l'occasione per ordinare attacchi mirati sul territorio iraniano, in particolare volti a minare la corsa, mai disinnescata, del regime di Teheran alla costruzione di armi nucleari. In tal caso, la deriva verso una nuova guerra mediorientale senza limiti sarebbe difficilmente arrestabile.

Ma, soprattutto, l'attuale sviluppo della crisi israelo-iraniana rappresenta la più impietosa e definitiva sentenza della storia sulla politica estera seguita dagli Stati Uniti sotto la presidenza di Joe Biden. La rinnovata aggressività di Teheran contro Israele – nella quale va presumibilmente inscritto l'avallo all'eccidio di Hamas del 7 ottobre scorso, se non la sua attiva progettazione – è infatti la vera e propria nemesi della scelta strategica attuata da Biden appena entrato alla Casa Bianca: quella di rinnegare e invertire la linea seguita dal suo predecessore Donald Trump in Medio Oriente.

Trump, come è noto, aveva intrapreso un grande sforzo diplomatico per favorire l'avvicinamento tra Israele e paesi arabi sunniti – in primo luogo l'Arabia Saudita – nella prospettiva di una reciproca legittimazione e di una gestione comune dei nodi ancora aperti nel dossier israelo-palestinese, isolando invece l'Iran, considerato il principale agente ostile e destabilizzatore. Uno sforzo che aveva portato nel 2020 all'importantissimo traguardo degli Accordi di Abramo, e la cui tappa successiva avrebbe dovuto essere un accordo diretto tra Gerusalemme e Riad.

Biden, al contrario, ha congelato il dialogo con i sauditi e ha ripreso, sulle tracce della strategia di Barack Obama, quello con Teheran. In questo modo ha impedito che il percorso di pace intrapreso da Trump fosse perfezionato, e ha incoraggiato tutti i successivi atti di destabilizzazione nell'area intrapresi dall'Iran e dai suoi alleati ed emissari. Un risultato disastroso, il cui segno più eclatante e imbarazzante è stata la decisione di non revocare, dopo la strage del 7 ottobre, lo sblocco di 6 miliardi di dollari di fondi iraniani all'estero precedentemente deciso per favorire la normalizzazione dei rapporti con Teheran.

La linea di scontro frontale senza quartiere contro la Russia nella crisi ucraina ha poi peggiorato ulteriormente la situazione, allontanando Mosca da Gerusalemme, cementando i rapporti di reciproco appoggio tra russi e iraniani, e alimentando la destabilizzazione di Teheran come arma in mano alle forze anti-occidentali nel mondo.
Al cospetto di questo vero e proprio capolavoro al contrario di politica estera da parte di Biden, la sua rinnovata proclamazione di sostegno a Israele suona falsa e ipocrita. Come suonano ipocrite le pressioni statunitensi a Netanyahu perché non continui la catena delle ritorsioni. Il principale responsabile di questa deriva di violenza è a Washington. Il confronto tra la situazione mondiale – e quella mediorientale in particolare – negli anni della presidenza di Trump e durante quella attuale è avvilente, per la rapida, e apparentemente inarrestabile, degenerazione dell'ordine internazionale negli ultimi quattro anni.
E l'esigenza di un'America che torni a svolgere un ruolo saldo di guida ed equilibratore a livello planetario si fa sempre più urgente.



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