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UNA STRATEGIA CATTOLICA

Fine vita e Consulta: nessun cedimento, giocare d'attacco

Il Parlamento deve rispondere entro settembre all'irrituale richiesta della Consulta di aprire al suicidio assistito. Cosa deve fare un parlamentare cattolico? Legittimarlo per alcuni casi? Moralmente inaccettabile, come dice il Magistero. Attenuarlo? Sbagliato: la morte dell'uomo non può essere paragonata all'abbandono di un cane. L'unica strada che il politico pro life può percorrere è quella di giocare d'attacco: non toccare l'articolo e introdurre l'obiezione di coscienza nella legge sulle Dat. Mettendo in conto di essere disposti al martirio. 
- I MEDICI CATTOLICI: "PRONTI ALLA GALERA" di Marco Guerra 

Vita e bioetica 24_06_2019

Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione radicale Luca Coscioni, è ancora sotto processo a Milano perché nel 2017 aveva accompagnato Dj Fabo nella clinica svizzera Dignitas dove praticano il suicidio assistito. Il processo è stato sospeso perché i giudici hanno sollevato eccezione di incostituzionalità presso la Corte costituzionale in merito al reato di aiuto al suicidio ex art. 580 cp. La Corte nell’ottobre del 2018 aveva passato la palla al Parlamento chiedendo di articolare una nuova disciplina normativa che legittimasse l’aiuto al suicidio in alcuni casi. I parlamentari avranno tempo fino al 24 settembre del 2019 perché in quella data la Consulta tornerà a trattare il tema proprio alla luce delle sopraggiunte novelle legislative.

Passano i mesi e i lavori parlamentari vanno assai a rilento. Ecco allora che nel marzo di quest’anno Giorgio Lattanzi, il presidente della Corte costituzionale, in occasione della relazione annuale ha tirato le orecchie agli onorevoli che stanno a Roma ricordando che il tempo sta scorrendo e la scadenza si avvicina

Detto tutto ciò sorge un quesito: il parlamentare che si batte contro l’eutanasia anche nella sua forma di aiuto al suicidio quale strategia potrebbe mettere in campo di fronte al diktat della Corte? Proviamo ad illustrare diverse ipotesi.

La prima: legittimare il suicidio assistito seppur in una forma attenuata. L’intento quindi sarebbe quello di non lasciare il pallino del gioco alla Consulta, la quale se intervenisse, a motivo dell’inattività del Parlamento, di certo permetterebbe la pratica del suicidio in modo assai ampio. Insomma, giocare d’anticipo per limitare i danni. Questa prima ipotesi è da rigettare. Infatti non è mai lecito legittimare il male anche perseguendo il fine lodevole di limitare i danni. Bene contenere possibili effetti negativi, ma l’azione di contenimento deve essere moralmente accettabile (questo è il presupposto su cui si articola il n. 73 dell’Evangelium vitae). 

Il Magistero a tal proposito è chiaro: «Egli [l’uomo] non può né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta [il riferimento è alla legge sull’aborto, ma per analogia tale riferimento è estendibile a tutte le leggi ingiuste], né dare ad essa il suffragio del suo voto» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’aborto procurato, n. 22); «per essi [ossia per “quanti sono impegnati direttamente nelle rappresentanze legislative”] come per ogni cattolico, vige l’impossibilità di partecipare a campagne di opinione in favore di simili leggi [ingiuste] né ad alcuno è consentito dare ad esse il suo appoggio con il proprio voto. […] La coscienza cristiana ben formata non permette a nessuno di favorire con il proprio voto l’attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 4); «essa [la pubblica autorità] non può mai accettare […] di legittimare, come diritto dei singoli […] l'offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita. […] l'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare» (Evangelium vitae, nn. 71-73: nel testo si fa riferimento alle norme legittimanti l’aborto e l’eutanasia, ma per analogia il principio può essere applicato a tutte le leggi ingiuste). 

Seconda strategia. Non andiamo a legittimare l’aiuto al suicidio, ma lo trattiamo con meno rigore dal punto di vista penalistico, rendendo più morbide le pene attualmente previste dall’art. 580 il quale sanziona con il carcere da cinque anni a dodici anni chi ha aiutato a suicidarsi una persona, posto che sia avvenuta la morte del suicida. Questa seconda ipotesi non troverebbe l’inciampo morale prima indicato, perché non si andrebbe a legittimare una condotta malvagia, ma al contrario a vietarla prevendendo una sanzione. Ma una intenzione buona – vietare/sanzionare l’aiuto al suicidio – deve essere soddisfatta da un atto consono a questa intenzione. In altre parole una pena troppo mite non configurerebbe la modalità congrua per soddisfare le funzioni della pena che sono di carattere retributivo, pedagogico e dissuasivo.

Ad esempio una pena di un anno non sarebbe proporzionata al bene violato, che è quello della vita, e quindi non riuscirebbe a soddisfare il fine retributivo: il bene vita deve trovare proporzionato presidio da parte dell’ordinamento penale. Basti pensare che l’abbandono di animali è punito fino ad un anno di carcere: la morte di una persona verrebbe equiparata all’abbandono di un cane. Un anno di reclusione poi, per ipotesi, non sarebbe in grado di emendare il reo. Infine il marito anziano che ha intenzione di portare la moglie, tetraplegica da anni, in Svizzera per farla morire non sarebbe dissuaso dal suo intento per il tramite dello spauracchio della detenzione di un solo anno, sia perché probabilmente il coniuge sarebbe disposto a pagare tale prezzo per vedere liberata la moglie da anni di patimenti, sia perché sarebbe cosciente che una pena così mite per una persona anziana verrebbe mutata di certo in qualche altra sanzione ancor più mite.

Inoltre occorre calcolare le ricadute sul piano sociale e giurisprudenziale di pene troppo miti quando di mezzo ci sono le vite delle persone. Il percepito collettivo e l’orientamento giurisprudenziale potrebbero leggere il diminuito rigore dell’azione penale come tolleranza delle pratiche eutanasiche. L’affievolimento della risposta sanzionatoria verrà interpretata come effetto dell’orientamento eutanasico che deriva anche dalla legge 219/2017 e che si riverbera altresì nel reato di aiuto al suicidio. In altri termini, in tempi di aperture eutanasiche è opportuno anche sul piano sociale e giudiziale non lasciare trasparire atteggiamenti compromissori e indulgenti verso le stesse, ma all’opposto, almeno, rimaner saldi nelle posizioni acquisite. 

Si obietterà che la Consulta ha però imposto al Parlamento di aprire dei varchi nel reato dell’aiuto al suicidio e dunque qualcosa bisognerà pur fare in quella direzione. Si potrebbe rispondere nel modo seguente. L’affievolimento della risposta sanzionatoria non procede nella direzione indicata dalla Consulta perché questa chiedeva perlomeno una parziale legittimazione dell’aiuto al suicidio. Si evince con sufficiente chiarezza in primis dal comunicato stampa della Consulta dell’ottobre 2018: “La Corte costituzionale ha rilevato che l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. La tutela delle posizioni soggettive non si sostanzia mai in pene più miti e, parimenti, il bilanciamento di beni giuridici è espressione che usualmente in giurisprudenza rimanda non a sanzioni meno severe, bensì al riconoscimento/assegnazione di diritti soggettivi da contemperare con altri.

In secondo luogo la volontà di legittimare seppur in casi circoscritti l’aiuto al suicidio si evince da un passaggio del presidente della Consulta Lattanzi nella già citata relazione annuale: “La Corte ha ravvisato la criticità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui incrimina chi agevola il suicidio del malato irreversibile e sofferente […]. Al contempo però ha considerato che la regolamentazione delle condizioni e dei modi di esercizio del diritto a sottrarsi in modo definitivo alla terapia con l’aiuto materiale di terze persone fosse da un lato costituzionalmente necessaria, e dall’altro esorbitante dal campo decisorio della Corte, e invece di pertinenza del legislatore”. Quindi la Consulta critica la sanzione penale in certi frangenti e predica un diritto a sottrarsi alle cure che da una parte non può che essere messo in relazione al suicidio assistito (offrire un preparato letale è un modo per sottrarsi alle cure in modo definitivo) e che, su altro fronte e per ciò che non è ancora stato disciplinato dalla legge, deve trovare risposta nel Parlamento. In breve punire meno severamente chi ha aiutato a morire non soddisfa né le funzioni della pena e né le indicazioni della Consulta.

Terzo scenario. Rimanere assolutamente inerti. Anche questa ipotesi è da scartare perché spazi di manovra ci sono.

E così arriviamo alla quarta soluzione che però, è bene dirlo, non vuole certo fregiarsi del titolo di “Panacea di tutti i mali”. Forse l’atteggiamento migliore in questa strettoia creata dalla Consulta è quella di giocare d’attacco. Il parlamentare pro-life, in obbedienza alla propria retta coscienza e in disobbedienza alla coscienza non retta dei giudici di Roma che vogliono spingere verso una legge ingiusta, deve non solo puntare i piedi e non mettere mano all’art. 580 cp, non ottemperando all’indicazione della Consulta perché iniqua, ma, imitando i Radicali, deve approfittare dell’occasione per chiedere una modifica della legge sulle Dat ad esempio esigendo che venga inserita l’obiezione di coscienza per i medici. Insomma non solo un gioco di difesa, ma soprattutto di attacco. 

Non ci risulta che sul piano giuridico ci possano essere conseguenze se i parlamentari non ottempereranno al diktat della Corte costituzionale, anche perché l’uscita della Consulta per alcuni aspetti è altamente irrituale. Questa posizione intransigente in merito all’immutabilità dell’art. 580 cp e alla volontà di modificare la legge 219/17 in meglio dovrebbe essere mantenuta anche se si temono riverberi negativi sul piano politico e massmediatico. 

Questo è proprio uno dei frangenti in cui occorre essere pronti al martirio – martirio soft dato che a nessuno verrà spiccata la testa dal busto – e altrettanto pronti a rifiutare qualsiasi compromesso. Ma poi sappiamo bene come andrà a finire: i parlamentari “cattolici” sceglieranno il male minore. Come sempre.