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CHIESA

Vescovi e immigrazione, quanta incompetenza

Luoghi comuni, equivoci, ipocrisia. Un altro comunicato della presidenza CEI sulla questione dei migranti ripropone il solito appello ad accoglienza e solidarietà che ignora totalmente i fatti.

Editoriali 20_07_2018

Siamo alle solite. Ogni volta che il vertice della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) interviene sul tema immigrazione si sprecano equivoci, luoghi comuni e ipocrisia. Non fa eccezione il comunicato diffuso ieri dalla presidenza della Cei dal titolo “Migranti, dalla paura all’accoglienza”. Si parte come solito da un’immagine che non può non commuovere per ribadire che davanti ai drammi umani siamo tutti responsabili, che non possiamo girarci dall’altra parte; per esaltare quanti si impegnano per l’accoglienza e l’integrazione; per poi infine concludere che dobbiamo impegnarci a rispettare «la vita, ogni vita» contro l’imbarbarimento e la volgarità.

Parole certamente belle e condivisibili come criteri, ma che nel contesto in cui sono scritte vogliono significare una presa di posizione politica ben precisa seppur mascherata da un ipocrita «non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato». Non per niente il comunicato della presidenza CEI fa eco alla «Lettera ai vescovi italiani sul razzismo dilagante», pubblicata nei giorni scorsi da un centinaio di preti e laici molto più preoccupati di bastonare certi partiti che non di trasmettere amore alla vita. Seppure con toni più misurati, la risposta dei vescovi di fatto ripete il solito cliché: chi non è per l’accoglienza senza se e senza ma, è un razzista, xenofobo e via dicendo. Vale a dire: non è cristiano.

Bisognerà allora ripetere per l’ennesima volta alcuni elementi della realtà che sembrano sfuggire – per incapacità o per vigliaccheria – nelle riflessioni di certi vescovi, anche di buona volontà.

Il fenomeno delle migrazioni, come si sa, è complesso (non complicato, ma complesso) e prima di parlare sarebbe il caso almeno di informarsi sui tanti fattori che contribuiscono a questo fenomeno. In ogni caso ciò di cui si sta parlando in Italia, che sta infiammando la politica e la società, e sta generando inquietudine e ribellione, non è l’immigrazione in generale: è invece quel fenomeno particolare che si chiama immigrazione irregolare, o clandestina.
È quel fenomeno controllato da potenti organizzazioni criminali internazionali, diventato ormai una vera e propria tratta degli schiavi, di cui il passaggio in barca nel Mediterraneo è solo una tappa (in genere la penultima). Soltanto una minima parte di coloro che sbarcano sulle nostre coste hanno diritto a vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, ma nel frattempo le nostre città si sono riempite di “richiedenti asilo” che, nelle migliori delle ipotesi, bighellonano senza fare nulla ma molto più spesso molestano, delinquono, spacciano. È questo che crea disagio, rabbia, paura, il tutto moltiplicato da un senso di impotenza davanti a politici, ecclesiastici, intellettuali che sembrano animati solo dalla voglia di trasformare l’Italia in un campo di battaglia.

Il razzismo non c’entra nulla, il problema è la legalità. Curioso che siano proprio gli ecclesiastici che più in questi anni hanno preteso di dare lezioni di legalità a incitare alla violazione delle leggi nazionali e internazionali, a legittimare criminali e terroristi che lucrano su questa tratta, a coprire con una mano di buoni sentimenti gli inconfessabili affari di chi si arricchisce con la cosiddetta accoglienza (tra cui tante sigle cattoliche).

Non si passa dalla paura all’accoglienza se non ripristinando la legalità, una politica seria dei flussi migratori con leggi chiare (oltre che giuste) che siano fatte rispettare a tutti. Come si fa a discettare di integrazione quando stiamo parlando di immigrati irregolari che non hanno alcun diritto di restare in Italia o in Europa (solo una minima parte di quanti arrivano fuggono dalla guerra)?

E a proposito di integrazione: i nostri vescovi dimenticano di richiamare che l’integrazione non è un processo a senso unico, e qui parliamo anche di quanti arrivano in modo regolare. Tutti sappiamo che da questo punto di vista l’immigrazione islamica rappresenta un problema: i musulmani, in gran parte, non si integrano e non hanno alcuna intenzione di farlo. Nella loro concezione l’unica integrazione possibile è l’islamizzazione delle nostre società. La presidenza CEI non ha neanche una parola da dire su questo fenomeno, niente affatto secondario?

Quanto poi all’aspetto umanitario, seppure a volte c’è chi anche nel governo esagera con le parole (in quantità e qualità), nessuno ha mai sostenuto la volontà di non soccorrere in mare o di lasciare affogare le persone. Né l’Italia ha mai lasciato morire qualcuno. Ma le immagini esibite di bambini morti e volti sconvolti fanno ormai parte di una guerra mediatica che serve a fare pressione sul governo per costringerlo a cedere sul traffico di clandestini e poter così continuare a lucrare sulla tratta.

C’è - purtroppo anche tra i cattolici - chi auspica morti in mare per poter accusare il governo di disumanità criminale. Forse i vescovi dovrebbero dire qualcosa anche su chi gioca sulla pelle dei migranti per poter affermare la propria linea politica. E sicuramente dovrebbero ricordare che sono stati proprio i “porti aperti” a favorire le tragedie in mare (il record è stato nel 2016 con oltre 5mila morti), e che l’unico modo per evitarle è impedire le partenze e bloccare la tratta. Inoltre bisognerebbe avere presente che un conto è soccorrere le persone in mare, altra cosa pretendere che ogni persona soccorsa, per il fatto stesso di essere in mare, abbia il diritto di essere reinsediata in un paese di propria scelta.

Un’ultima nota: il documento della Presidenza CEI si conclude ricordando la necessità dell’«impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata». Non per voler fare le classifiche, ma secondo la presidenza CEI c’è una vita «più esposta, umiliata e calpestata» di quella dei bambini uccisi nel ventre della madre? Oltre centomila vittime l’anno solo in Italia. Vogliamo poi parlare dell’utero in affitto o degli embrioni sacrificati nella fecondazione artificiale (decine di migliaia all’anno)? E se per i migranti si usano parole tanto forti, come mai non sentiamo lo stesso ardore per i più piccoli e indifesi? Perché in caso di morte di migranti si usa parlare di “strage”, “ecatombe” anche quando si tratta di poche unità, mentre per le migliaia e migliaia di embrioni sacrificati nel 2017 sull’altare del “figlio a tutti i costi”, il quotidiano dei vescovi usava un più rassicurante «sciupìo di vita umana individuale»?

P.S.: Fortunatamente ci sono anche vescovi che si distaccano da questo inginocchiarsi al politicamente corretto e sono in grado di riflettere su quanto sta avvenendo a partire dalla fede e senza lasciarsi ingabbiare in discorsi ideologici. È il caso di monsignor Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia-Sanremo (quindi uno che di drammi della migrazione se ne intende) che proprio ieri ha pubblicato una  risposta ai firmatari della “Lettera ai vescovi italiani”. È un po' lunga ma vale la pena leggerla (clicca qui).