Turchia, il sultanato che piace ai salotti buoni
A New York compare un nuovo murales di Banksy. Raffigura la pittrice e giornalista curda Zehra Dogan, in carcere in Turchia per aver dipinto la cruda realtà della repressione turca contro i curdi. La Turchia di Erdogan, che ieri festeggiava la sua vittoria ad Afrin, è una vergogna su cui il mondo benpensante tace.
Arrestata per aver dipinto la realtà: una bandiera turca che sorvola le rovine di una città devastata. Questa la sorte dell'artista e giornalista curda Zehra Dogan, immortalata dal murale di Banksy a New York. La Dogan è raffigurata dietro alle sbarre, in una parete dove sono presenti altre sbarre, come finestre sulla Turchia di oggi dominata dal dittatore-sultano Erdogan: un carcere a cielo aperto per dissidenti, intellettuali liberi, scrittori, giornalisti, artisti, moderati, donne.
Il murale di Banksy, con tutta la potenza espressiva della sua arte di strada è un monito ad annusare bene l'aria, che sa di Algeria anni '90: di intimidazioni, di repressione di massa, di gole tagliate e di pallottole perennemente in volo, di massacri e violenze generalizzate, di estremismo al potere. Il fetore nauseabondo che emana il potere quando è esercitato come una tirannia su un Paese libero si spande verso il Mediterraneo, e ingrossa la sua scia dell'odore del sangue dei curdi sterminati mescolato alla terra impregnata di dolore. L'arresto di Zehra Dogan, curda ma con cittadinanza turca, risale al 2016 e a quel colpo di Stato che servì al sultano-dittatore, esponente di spicco dell'estremismo politico della Fratellanza Musulmana, per spazzare via con la violenza e la detenzione tutti gli oppositori al suo regime: trascinata via a forza dal bar dove si trovava, incarcerata e rilasciata in attesa di sentenza.
Poi il dipinto che raffigura la vergogna internazionale, il genocidio dei curdi in atto senza che nessuno dica una parola o faccia qualcosa dal ''civile'' Occidente: e il carcere torna nella vita della Dogan, la cui unica colpa è dire quello che nessuno vuole dire e cioé che Erdogan sta massacrando una popolazione e che gli viene concesso impunemente. E soprattutto mette fine ad una lunga sequela di false notizie, di fake news sul fatto che fossero Siria e Russia ad uccidere i curdi. Quel dipinto, e il murale di Banksy insieme ad esso, spezzano definitivamente (qualora ce ne fosse ancora bisogno) il legame fra i grandi giornali e media del mainstream e la verità: i primi megafoni di fake news sono proprio loro, che indirettamente spingono i curdi nelle mani di Erdogan. A farsi massacrare. Come sempre ci si chiede dove siano oggi i paladini dei diritti delle donne, oppure quelle belle signore in tailleur e foulard che riempiono i salotti buoni del pensiero unico con le loro sdegnate reazioni su una desinenza mancata, oppure le barricadere delle manifestazioni antifasciste con la bottiglia in mano e la stella rossa sulla borsa, oppure le eleganti curatrici di mostre sull'integrazione di donne con burqa e niqab definite libere.
C'è da chiederselo perché mentre Zehra Dogan marcisce in carcere per aver dipinto la verità, mentre ragazze iraniane subiscono lo stesso destino per aver tolto il velo, e soprattutto mentre i soldati turchi entrano nel centro di Afrin il mondo tace: una vergogna che si ricorderà per sempre, marchiata a fuoco non solo dal murale ma anche e soprattutto dall'immagine di un bambino che scappa dalla morte in una valigia. Mentre altri come lui non possono più farlo, perché sono già sotto terra. ''Grazie'' alle bombe del sultano, la cui politica nazionale ed estera ispirata ai dettami della fratellanza musulmana sta rivelando il suo vero volto. La comunità internazionale, che minacciò di scatenare una guerra per la Crimea e per il Donbass, oggi con il suo silenzio si copre di un'infamia senza tempo.