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TRIESTE

Ridurre gli aborti, ma senza appoggiarsi alla 194

Anche a Trieste una mozione impegna la giunta a misure per ridurre gli aborti. Iniziativa lodevole, ma solo apparentemente. Perché si appoggia alla legge 194, che resta una "non" legge, una norma iniqua. Per questo, iniziative come quella di Trieste sono filosoficamente e moralmente sbagliate. Eppure queste mozioni vanno fatte, ma appoggiandosi a ricerche scientifiche, non alla 194 perché così non si fa altro che legittimare la legge sull'aborto. 

Editoriali 12_02_2019

Al Consiglio comunale di Trieste è stata presentata una mozione a firma Fabio Tuiach che, se approvata, impegna la giunta comunale ad attuare una serie di interventi tesi ad informare le donne sui pericoli sanitari in cui incorrono in caso di interruzione della gravidanza e a predisporre forme di aiuto per le donne in difficoltà in modo che evitino l’aborto. La mozione ha lo scopo di ridurre le interruzioni di gravidanza a favore non solo delle donne ma anche e soprattutto dei concepiti. Essa però parte dal testo delle legge 194 che ha legalizzato l’aborto in Italia nel 1978 e si appoggia su di esso per giustificarsi in termini di legge. Vengono citati infatti alcuni articoli della legge che, secondo i promotori, non solo ammetterebbero, ma anche richiederebbero gli interventi che essi chiedono di approvare. Dato che mozioni di questo tipo sono oggi più frequenti di un tempo e spesso sono anche proposte e sostenute da cattolici, non è male interrogarsi sulla loro liceità morale e opportunità.

Il problema centrale è il seguente: è moralmente lecito fondarsi su una legge ingiusta che nega il diritto alla vita del concepito per supportare giuridicamente politiche tese a ridurre il danno dell’aborto? 

Prima di tutto c’è un principio da tenere presente, chiarito da tutta la filosofia del diritto classica e cristiana: una legge ingiusta non è una legge. Una legge è ingiusta quando non rispetta la legge naturale, anche in una sola prescrizione. La legge 194 non rispetta la legge naturale in quanto permette l’uccisione di un essere innocente e quindi è radicalmente ingiusta. Quindi essa non è una legge. Appoggiarsi ad una non-legge come fondamento giuridico per alcune politiche, qualunque esse siano, è una contraddizione in termini. Una legge che non è una legge non può fornire nessuna base giuridica per nulla. L’unico dovere verso una legge ingiusta è di abolirla totalmente oppure parzialmente se l’obiettivo massimo non fosse realisticamente raggiungibile. Chiamarla in causa senza esplicitare che la si considera ingiusta è scorretto. Possiamo anche farlo, ma allora negheremmo il dovere della legge di fondarsi sul diritto e accetteremmo il positivismo giuridico che né con la sana ragione né con la dottrina cattolica ha nulla a che fare. 

Si potrebbe però osservare che nella mozione in questione non ci si appoggia per intero sulla legge 194, ma solo su alcuni suoi punti che prescrivono azioni lecite alla luce della legge naturale, pur essendocene altri di negativi al punto da qualificarla come ingiusta. Per esempio l’articolo 1 della 194 secondo cui lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio. In altre parole, una legge ingiusta può contenere delle indicazioni lecite. Nel caso specifico, però, bisogna tenere concretamente presenti due aspetti.  Prima di tutto la necessità di verificare se questi aspetti moralmente leciti non sono annullati da altri e soprattutto dallo spirito complessivo della legge, che permea di sé le singole parti. Per esempio, sei milioni di aborti attuati in Italia dal 1978 ad oggi gettano una grande ombra sull’affermazione dell’articolo 1 richiamata sopra. In secondo luogo la consapevolezza che richiamarsi alle eventuali parti lecite senza dichiarare che la legge è nel suo complesso fondamentalmente ingiusta fa passare l’idea nell’opinione pubblica che l’intera legge sia giusta. 

Certamente presentare una mozione che si appella alla 194 contro lo spirito della 194 non significa esprimere un voto di assenso alla legge stessa, ma appellarsi ad alcune sue parti senza esplicitare che la legge sia da ritenersi ingiusta induce a pensare ad un riconoscimento indiretto della legge stessa. Ad un esame prudenziale gli eventuali effetti positivi vengono così superati da quelli negativi. Ridurre gli aborti mediante una maggiore informazione sui rischi sanitari che essi comportano per la donna è in sé un bene, che però non può essere perseguito appellandosi ad alcune parti di una legge ingiusta senza dire che è tale, perché equivarrebbe a perseguire il bene mediante il male. Chi votasse a favore di una mozione come quella di Trieste, fondata su aspetti in se leciti di una legge ingiusta senza dire che è ingiusta, come farà poi a combattere per abolirla, proprio lui che in un’aula consigliare l’ha adoperata come sostegno giuridico alle sue proposte? Quella legge ingiusta verrà ulteriormente rafforzata, e i suoi sostenitori potranno farsi vanto che perfino i detrattori di quella legge l’hanno adoperata, riconoscendo così che non è ingiusta ma giusta, non dannosa ma in qualche modo utile. Equivoci di questo genere sono tragicamente dannosi.

Ma allora non è possibile proporre mozioni che riducano gli effetti della 194? Certo che è possibile, ma senza appoggiarsi alla 194 e, in ogni caso, affermando in prima battuta che si tratta di una legge ingiusta: questo dovrebbe essere il primo “premesso che …” di ogni mozione avente questo fine. Tale mozione dovrebbe poi appoggiarsi ad altre basi. Se si presenta una mozione per impegnare una giunta ad informare le donne in gravidanza sui rischi dell’aborto ci si può appoggiare – come anche la mozione triestina infatti fa – su altri punti dell’ordinamento giuridico, su studi del settore, su ricerche che dimostrino una carenza di informazione in proposito, su studi medici che comprovino i suddetti rischi. La mozione può e deve essere presentata, ma non nella forma del riconoscimento diretto o indiretto della 194, altrimenti si collabora con una legge iniqua e si lavora per il suo consolidamento.