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I VOLUMETTI E LA DICHIARAZIONE DI COLONIA

Quei teologi contro il Papa che oggi “fanno carriera”

Non dev’essere stato piacevole per Benedetto XVI trovare che tra gli undici “eletti” dei volumetti della collana La Teologia di papa Francesco figurano due firmatari della Dichiarazione di Colonia: Peter Hünermann e Jürgen Werbick. la Dichiarazione di Colonia e la posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, allora guidata da Ratzinger, sono esattamente l’una l’opposta dell’altra. Come si poteva allora pensare che Ratzinger desse il suo contributo a sostegno di un’opera che intende mostrare una continuità ricorrendo ai sostenitori della contrapposizione e dell’opposizione?

Ecclesia 03_04_2018
Jürgen Werbick

L’obiettivo della pubblicazione degli undici volumetti della collana La Teologia di papa Francesco doveva essere quello di “rendere accessibile quel tesoro di sapienza ecclesiale che anima ed è nascosto dietro i gesti di papa Francesco”. Il progetto, in particolare avrebbe dovuto “mostrare l’insegnamento di papa Francesco, le sue radici, le novità del suo pontificato, la continuità con il magistero precedente e le prospettive che apre”. Così il responsabile editoriale della LEV, fra Giulio Cesareo, francescano conventuale, fortemente voluto da Viganò che lo definì “un nuovo tassello importante nel processo di riforma”.

Senonché il noto “no, grazie” del Papa emerito - provocato dalla tenacia del neo-assessore di voler rendere comunque note le parole della lettera di papa Ratzinger - qualche dubbio sulla continuità l’ha sollevato. In effetti, non dev’essere stato piacevole per lui trovare che tra gli undici “eletti” figurano due firmatari della Dichiarazione di Colonia: Peter Hünermann e Jürgen Werbick. Anche perché quella dichiarazione del 1989 appariva con toni tutt’altro che aperti al confronto e al dialogo. Tipo: “Da parte della curia romana viene ostentatamente attuato a livello mondiale il piano di occupare sedi episcopali senza tenere presenti le proposte delle chiese locali e trascurando unilateralmente i diritti da loro acquisiti”. Strano però che gli zelanti firmatari non abbiano battuto ciglio allorché è stato l’attuale Pontefice a non tener conto delle tradizionali terne per la nomina dei vescovi di Madrid, Chicago e Bologna. Come si sa, bisogna discernere caso per caso… Ma a parte i toni, già abbastanza rivelativi degli intenti, bisognerebbe chiedere a fra Giulio come si faccia a mostrare la continuità scegliendo due teologi che hanno apertamente contestato il Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

Una rapida lettura della Dichiarazione di Colonia non può che confermare le perplessità della scelta. Per esempio, la veemenza che viene scagliata contro l’indebita irruzione del centralismo romano “nell’attribuzione o nel rifiuto della autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento senza previa consultazione della chiesa locale o addirittura contro l’esplicita convinzione del vescovo locale”. Una visione “federalista” della Chiesa da far impallidire Umberto Bossi. I firmatari portano avanti un’argomentazione che è stata tenuta in naftalina per un po’ di tempo e che adesso viene ripresa senza troppi scrupoli: “Non tutti gli insegnamenti della Chiesa sono caratterizzati sul piano teologico dallo stesso grado di certezza e dalla stessa importanza. Ci opponiamo a una prassi che, nell’attribuzione o nel rifiuto della autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento, viola questa dottrina dei gradi di certezza teologica e della contestuale «gerarchia delle verità»”. Va da sé che la determinazione del tipo di assenso da dare ai pronunciamenti della Chiesa sarebbe materia di libera discussione teologica, che non accetta interventi da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale viene invece accusata di aver “arbitrariamente montato quali criteri di individuazione della fede” problemi periferici in ambito etico e dogmatico, problemi su cui ci si è addirittura “fissati”.

Variazioni sullo stesso tema: “Il diritto delle facoltà e degli istituti universitari a integrare i propri organici ricorrendo alla scelta di nuovi docenti non può essere completamente minato mediante un esercizio arbitrario della potestà d’attribuire o rifiutare l’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. Il fatto che nelle università la scelta dei docenti di teologia venga fatta in base a criteri estranei alla scienza e sotto la pressione dei problemi sovramenzionati comporta uno scadimento della dignità della teologia nell’ambito universitario”. Solo tre anni prima, la Congregazione interveniva per sospendere dall’insegnamento della teologia il prof. Charles Curran, che aveva letteralmente fatto strike su tutte le tematiche relative all’etica sessuale, dalla contraccezione agli atti omosessuali, dall’indissolubilità matrimoniale all’eutanasia. L’allora prefetto, Cardinal Ratzinger, doveva rispondere all’affermazione di fondo del prof. Curran, e cioè “che le Sue tesi, poiché sono convincenti per Lei e divergono solo dall’insegnamento «non infallibile» della Chiesa, costituiscono un dissenso «responsabile» e dovrebbero pertanto essere permesse dalla Chiesa”. La stessa posizione dei firmatari. Ratzinger ricordava però che è lo stesso Vaticano II a non limitare “il magistero infallibile solamente alle materie di fede oppure alle definizioni solenni” (cf. Lumen Gentium, 25).

Inoltre “la Chiesa non costruisce la sua vita solo sul suo magistero infallibile, ma anche sull’insegnamento del suo magistero autentico ordinario”, cui il fedele è tenuto a prestare “il religioso ossequio dell’intelligenza e della volontà”. Il prof. Curran aveva perciò proposto di poter continuare ad insegnare teologia morale, ma senza occuparsi dell’etica sessuale, sulla quale dissentiva dal Magistero. La risposta di Ratzinger permette di chiarire come si debba intendere il principio della “gerarchia delle verità” ostentato dalla Dichiarazione di Colonia: la Congregazione “non accetta la Sua soluzione di compromesso, a motivo dell’unità organica dell’autentica teologia cattolica, unità che è intimamente legata, nel suo contenuto e nel suo metodo, alla fedeltà al Magistero della Chiesa”. Chiaro? Unità organica, legata alla fedeltà al Magistero.

Nel 1990, poi, la Congregazione pubblicava l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, nella quale si ricordava che il teologo non è un libero pensatore che deve tener conto solo dei criteri scientifici; egli, invece, nel momento in cui riceve il mandato di insegnare, diventa “in un certo senso, una partecipazione all’opera del Magistero… Da quel momento egli è investito ufficialmente del compito di presentare ed illustrare, con tutta esattezza e nella sua integralità, la dottrina della fede”; e richiamava nuovamente i diversi gradi di adesione agli insegnamenti del Magistero. Il “gran rifiuto” del Papa emerito si colloca perciò in perfetta coerenza con queste affermazioni: come si fa ad affidare il compito di presentare la continuità dell’attuale pontificato con i precedenti a dei teologi che hanno contestato quelli e che rifiutano di svolgere la propria opera teologica secondo la mens della Chiesa? Come si fa, per esempio, ad assegnare l’antropologia di papa Francesco alla penna di Hünermann, che contesta tutte le posizioni del Magistero sull’etica sessuale? Che fine fa il principio dell’unità organica delle verità di fede? 

La Dichiarazione denuncia infine “il tentativo, estremamente problematico, di far valere in modo inammissibile e al di là dei limiti dovuti la competenza magisteriale, oltre che giurisdizionale, del papa”. Il papa non deve solo evitare di ficcare il naso nelle nomine dei vescovi e nell’autorizzazione ecclesiastica per l’insegnamento della teologia, ma deve anche limitarsi nel suo insegnamento. “La coscienza individuale non è un surrogato del magistero pontificio”; anzi, secondo i firmatari, “il magistero è vincolato — nella sua interpretazione della verità — anche alla coscienza individuale dei credenti. Neutralizzare la tensione tra dottrina e coscienza significa negare la dignità della coscienza”. Nel mirino, in primis, non poteva che esserci Humanae vitae: “A parere di molte persone appartenenti alla Chiesa, la norma sancita dall’enciclica Humanae vitae del 1968 in materia di regolazione delle nascite rappresenta semplicemente un orientamento che non sostituisce la responsabilità della coscienza dei fedeli. Molti vescovi… e moralisti ritengono che tale posizione venga sostenuta a ragione da numerosi cristiani e cristiane poiché sono convinti che la dignità della coscienza non consista solo nell’obbedienza, ma anche e soprattutto nella responsabilità. Un papa che nei suoi interventi si richiama sempre più di frequente alla responsabilità dei cristiani e delle cristiane nell’ambito dell’agire intramondano, non dovrebbe trascurare sistematicamente questa istanza in un punto talmente serio”. 

Anche su questo punto Ratzinger rispose con estrema chiarezza nell’Istruzione poc’anzi menzionata, ricordando che il “dovere di seguire la propria coscienza non può legittimare il dissenso. Innanzitutto perché questo dovere si esercita quando la coscienza illumina il giudizio pratico in vista di una decisione da prendere, mentre qui si tratta della verità di un enunciato dottrinale”. In altri termini: sugli enunciati dottrinali non si dà giudizio pratico, ma adesione dell’intelletto e della volontà. “Inoltre perché se il teologo deve, come ogni credente, seguire la sua coscienza, egli è anche tenuto a formarla. La coscienza non è una facoltà indipendente e infallibile… La coscienza retta è… debitamente illuminata dalla fede e dalla legge morale oggettiva”. 

Non vi è dubbio che questi teologi siano stati scelti per la loro consonanza con frequenti slogan del corso ecclesiale attuale, che ritroviamo esplicitamente nella chiusura della Dichiarazione: la Chiesa “non è una città assediata e costretta a innalzare ancor più i propri bastioni, difendendosi con forza contro quanto le è interno ed esterno”; “la difesa delle chiese povere, la liberazione delle chiese abbienti dai loro lacci e la promozione dell’unità della chiesa sono finalità che comprendiamo e per cui ci impegniamo”; la Chiesa “non ha la mansione di acuire conflitti di importanza secondaria eludendo ogni tentativo di dialogo né di dirimerli unilateralmente ricorrendo agli strumenti del magistero”.

Ma resta il fatto che la Dichiarazione di Colonia e la posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, allora guidata da Ratzinger, sono esattamente l’una l’opposta dell’altra. Come si poteva allora pensare che Benedetto XVI desse il suo contributo a sostegno di un’opera che intende mostrare una continuità ricorrendo ai sostenitori della contrapposizione e dell’opposizione? Viganò sperava in una disattenzione del Papa emerito o forse nella sua lettera – che ancora non è stata resa nota – giocava la carta “morale” di una richiesta dello stesso Papa Francesco? L’inciucio che ne è seguito delle “dimissioni-non dimissioni” di Viganò, di certo mostra in modo abbastanza evidente che quest’ultimo non ha agito motu proprio.