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EUTANASIA/LA SENTENZA

Legge sì, pietà no: i sofismi mortali della Cassazione

Se ammazzi una persona fuori dagli ospedali e non nel rispetto delle procedure della legge è un reato riprovevole. Se lo fai nelle strutture deputate e i tutti i crismi di legge è un diritto e viene inteso come conquista sociale. I sofismi mortali della Cassazione dopo la condanna di un anziano che ha sparato alla moglie malata per "compassione".  

Vita e bioetica 10_11_2018

Qualche mese fa la Cassazione aveva confermato la condanna di un pensionato che aveva ucciso la moglie malata di Alzheimer perché, come aveva confessato lui stesso, non ce la faceva più a vedere la consorte in quelle condizioni. Due giorni fa è stata pubblicata una sentenza molto simile a quest'ultima. Già a febbraio avevamo commentato alcuni giudizi espressi dai giudici relativi al fatto che nella coscienza collettiva esiste una riprovazione generale in merito alla soppressione di una persona per fini pietistici e quindi per ora uccidere per “pietà” deve rimanere reato. Mica vero che la coscienza collettiva riprova l’eutanasia, ossia l’omicidio compiuto per fini “compassionevoli” (le virgolette sono d’obbligo perché la compassione non porta mai all’omicidio). L’agenzia SWG nel marzo del 2017 pubblico un’indagine sull’eutanasia: il 74% degli italiani si dichiarò favorevole al suicidio assistito. Negli anni precedenti,  ricerche analoghe hanno prodotto risultati simili.

Ma non è di questo che vogliamo qui parlare. Ci interessa invece isolare un’argomentazione dei giudici presente nelle motivazioni. Eccola: la “nozione di compassione è attualmente applicata con riguardo agli animali da compagnia, rispetto ai quali è usuale, e ritenuta espressione di civiltà, la pratica di determinarne farmacologicamente la morte in caso di malattie non curabili", mentre "nei confronti degli esseri umani operano i principi espressi dalla Carta costituzionale, finalizzati alla solidarietà e alla tutela della salute". Dunque prevale il “superiore principio del rispetto della vita umana, che è il criterio della moralità dell'agire" . Ma allora cosa dire della recente legge sulle Dat che legittima l’eutanasia? Rispondono sempre gli ermellini: è "del tutto distinto" il "dibattito culturale sui limiti al trattamento di fine vita e sul rilievo del consenso del malato, fondato sul principio costituzionale del divieto di trattamenti sanitari obbligatori".

Qualche riflessione. In primis se nei confronti degli esseri umani devono prevalere i principi costituzionali “finalizzati alla solidarietà e alla tutela della salute”, nonché il “superiore principio del rispetto della vita umana, che è il criterio della moralità dell'agire", la legge sulle Dat dovrebbe essere abrogata perché incostituzionale e immorale.

In secondo luogo è davvero bizantino il distinguo applicato dalla Cassazione: no ad uccidere per compassione un essere umano (questo semmai lo possiamo fare con le bestie), sì ad ucciderlo nel rispetto del “principio costituzionale del divieto di trattamenti sanitari obbligatori". In merito a questo principio alcune brevi note. Dal punto di vista giuridico tale principio si fonderebbe sull’art. 32 della Costituzione che al suo secondo comma così recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Se si vanno a leggere i lavori preparatori di questo articolo si comprende bene che esso non costituisce il lasciapassare per l’eutanasia, bensì voleva e vuole essere un divieto nei confronti dello Stato di usare le persone come cavie. Ricordiamo infatti che gli orrori delle sperimentazioni naziste erano ancora davanti agli occhi dei nostri padri costituenti. Che il rifiuto di cure non possa essere qualificato come un diritto – nonostante molte norme vigenti lo considerino tale – è provato anche dalla logica giuridica sottesa alla Costituzione: se le cure mediche sono un diritto e la salute un bene giuridicamente tutelato a livello costituzionale, logicamente la nostra Costituzione non può considerare il rifiuto delle cure come un diritto e la malattia come un bene giuridico. Sarebbe contraddittorio.

Dal punto di vista morale poi esiste un dovere etico di curarsi, che ovviamente non può sfociare nel suo contrario chiamato “accanimento terapeutico”, e un dovere morale di curare, di strappare alla morte il paziente, al di là del consenso o meno di quest’ultimo (ma anche in questo caso il dovere è contingente, non assoluto). Se è lecito e doveroso strappare a forza un tentato suicida da un cornicione di una casa, perché non dovrebbe essere ugualmente lecito e doveroso strappare a forza dalla morte un paziente che vuole farla finita?

Torniamo al distinguo indicato dai giudici: illegittimo uccidere per motivi “compassionevoli”, legittimo se esprime il rispetto del diritto a rifiutare le cure. Innanzitutto potremmo leggere la condotta del pensionato, condannato anche dalla Cassazione per omicidio, come legittimo intervento volto all’interruzione di cure non più volute. Sicuramente è stato un po’ crudo nelle modalità ricercate per soddisfare questo fine legale: ha sparato alla moglie e non le ha tolto semplicemente la ventilazione assistita (ma forse la prima modalità è stata anche meno dolorosa per la consorte, chi potrebbe dissentire con assoluta certezza?). Inoltre non ci risulta che fosse stato nominato come rappresentante legale della stessa. Diciamo questo perché, secondo l’attuale legge sulle Dat, il rappresentante legale può chiedere che venga ucciso il proprio assistito. Quindi potremmo tradurre la condotta del pensionato nell’alveo della legalità, seppur difetti di qualche requisito formale. Ma nella sostanza, alla luce dell’attuale disciplina legislativa, le sue gesta riproducono quelle di un qualsiasi medico che fa morire di fame e di sete un paziente dopo aver ricevuto la richiesta dal suo rappresentante legale. Cambiano i modi per uccidere, ma sempre di omicidio si tratta.

Inoltre c’è da ricordare che buona parte dei casi di eutanasia legale, ossia praticata nel rispetto del diritto al rifiuto delle cure, sono motivate in ultima istanza dalla “compassione”, motivazione non ritenuta valida dalla Cassazione. Ma in questo caso i giudici potrebbero obiettare che la causa prossima dell’uccisione di una persona deve risiedere nel legittimo rifiuto delle terapie, poco importando che tra le cause remote ci possa essere la “compassione”. Sofismi mortali. Anzi: doppi salti mortali.

La morale giuridica di questa sentenza è la seguente: se ammazzi una persona fuori dagli ospedali e non nel rispetto delle procedure della legge è reato ed è atto socialmente riprovevole. Se lo fai nelle strutture deputate e con tutti i crismi previsti dalla legge è un diritto – perchè in definitiva si tratta di rispettare il diritto al rifiuto delle cure – e dal popolino viene inteso come conquista sociale. Ed infatti i giudici della Cassazione scrivono: "le sentenze di merito hanno osservato che nella coscienza sociale è ancora dibattuto il tema della eutanasia, e che comunque è chiaro il ripudio di condotte, come quella posta in essere dall’imputato, connotate da violenza mediante l’uso di arma da fuoco e in un luogo pubblico”.

E’ il modo che ancor offende i giudici: sparare alla consorte. Così rozzo, pericoloso e poco igienico. Se invece avesse lasciato a killer professionisti in camice bianco il compito di svolgere il lavoro sporco, sarebbe stato tutto legale. Insomma c’è un etichetta da rispettare anche negli omicidi. E’ esattamente ciò che è avvenuto con l’aborto: uccidi il figlio in ospedale, in ambiente asettico e protetto, o con qualche pillolina e tu donna stai esercitando un diritto. Uccidilo senza il rispetto di questi vincoli e stai compiendo un illecito. Si tratta della burocratizzazione dell’assassinio per farlo diventare legale.

La recente decisione della Consulta di chiedere al Parlamento di disciplinare l’aiuto al suicidio potrebbe aprire al suddetto distinguo senza fondamento logico: sì all’aiuto al suicidio negli ospedali, perché significherebbe rispetto del rifiuto delle cure, no al di fuori di esse perché – ma non se ne comprende  bene il motivo – al di fuori di esse non vale il principio del rispetto del rifiuto delle cure.