La visione di Giovanni Paolo II: «L'islam invaderà l'Europa»
«Vedo la Chiesa del terzo millennio afflitta da una piaga mortale, si chiama islamismo. Invaderanno l’Europa. Ho visto le orde provenire dall’Occidente all’Oriente: dal Marocco alla Libia, dall’Egitto fino ai paesi orientali». Questa è la scioccante visione di San Giovanni Paolo II, mai pubblicata prima d’ora. Testimone della confessione è monsignor Mauro Longhi, della Prelatura dell’Opus Dei.
«Vedo la Chiesa del terzo millennio afflitta da una piaga mortale, si chiama islamismo. Invaderanno l’Europa. Ho visto le orde provenire dall’Occidente all’Oriente: dal Marocco alla Libia, dall’Egitto fino ai paesi orientali». Questa è la scioccante visione di San Giovanni Paolo II, mai pubblicata prima d’ora. Testimone della confessione destinata a far rumore è monsignor Mauro Longhi, del presbiterio della Prelatura dell’Opus Dei, molto spesso a stretto contatto con il Papa polacco durante il suo lungo pontificato. Il monsignore triestino ha rivelato l’episodio nell’eremo “Santi Pietro e Paolo” di Bienno, in Val Camonica, in una conferenza organizzata in ricordo di Giovanni Paolo II lo scorso 22 ottobre, giorno in cui la Chiesa festeggia la memoria liturgica del santo.
Per fare la necessaria chiarezza e inquadrare la visione profetica di Karol Wojtyla così come riportata da un sacerdote al di sopra di ogni sospetto (monsignor Longhi ha goduto della stima personale non solo di Giovanni Paolo II ma anche di Benedetto XVI, tanto da essere chiamato nel ’97 al Dicastero vaticano della Congregazione del clero) sono necessari alcuni riferimenti geografici e temporali.
Dal 1985 al 1995 l’allora giovane economista bocconiano Mauro Longhi (sarà ordinato sacerdote nel ’95) ha accompagnato e ospitato Papa Wojtyla nelle sue proverbiali sciate e passeggiate in montagna. Regolarmente, quattro-cinque volte l’anno per dieci anni, e lo ha fatto in quella che oggi è la sede estiva del Seminario internazionale della prelatura dell’Opus Dei, ma che allora era una semplice casa di campagna per chi, nell’Opera, voleva prepararsi al sacerdozio e alla docenza di teologia. Siamo in provincia dell’Aquila, a circa 800 metri, in direzione della Piana delle Rocche, frazione di Ocre. «Il Santo Padre usciva con molta riservatezza da Roma, accompagnato su una modesta vettura dal suo segretario Mons. Stanislaw Dziwisz e da qualche amico polacco, e al casello autostradale – unico posto in cui qualcuno poteva riconoscerlo – era solito fingersi intento nella lettura e mettersi un giornale davanti alla faccia». Così mons. Longhi, inaugurando una sfilza infinita di aneddoti succosissimi (spesso accompagnati – da scrupoloso pastore qual è – da opportune spiegazioni teologiche).
Ma è senz’altro il Karol Wojtyla mistico quello su cui il monsignore ha intrattenuto i fortunati uditori saliti a Bienno; quello che pochissimi conoscono, quello segreto e misterioso, grande protagonista di uno dei pontificati più lunghi della Chiesa. È il Papa che monsignor Longhi incontrava di notte nella cappella della casa di montagna inginocchiato per ore sugli scomodi banchi di legno davanti al Tabernacolo. Ed è il Papa che, sempre di notte, chi abitava la casa abruzzese sentiva dialogare, a volte anche animatamente, con il Signore o con la sua amata madre, la Vergine Maria.
Per indagare il mistico Karol Wojtyla (cosa che fece magistralmente Antonio Socci nel suo ben documentato “I segreti di Karol Wojtyla”, edito da Rizzoli nel 2008) monsignor Longhi ha raccontato quanto gli confidò Andrzej Deskur, cardinale polacco che di Giovanni Paolo II è stato compagno di seminario, quello clandestino di Cracovia. Deskur, per anni Presidente della Pontificia Commissione per le Comunicazioni sociali (1973-1984), può senz’altro considerarsi il più grande amico di Wojtyla, colui che per sostenere il pontificato dell’amico Lolek si era offerto come vittima – accogliendo la volontà divina dell’ictus e la conseguente paralisi – dentro quel mistero profondissimo che è la “sostituzione vicaria” (sarà proprio per andare a trovare in ospedale l’amico sofferente che la sera stessa dell’elezione Giovanni Paolo II farà la sua prima, incredibile e “clandestina” fuga dal Vaticano).
Così racconta Mons. Longhi: «“Lui ha il dono della visione”, mi confidò Andrzej Deskur. Al che gli chiesi cosa significasse. “Lui parla con Dio incarnato, Gesù, vede il suo volto e vede anche il volto di sua madre”. Da quando? “Dalla sua prima Messa, il 2 novembre 1946, durante l’elevazione dell’ostia. Era nella cripta di San Leonardo della cattedrale di Wawel, a Cracovia, è lì che ha celebrato la sua prima messa, offerta in suffragio dell’anima di suo padre». Monsignor Longhi aggiunge che il segreto svelatogli dal cardinal Deskur – quegli occhi di Dio che si fissano su Wojtyla ogni volta che questi eleva il calice e l’ostia – si può paradossalmente intuire leggendo l’ultima enciclica di Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia. Qui, al numero 59 della “Conclusione”, proprio mentre il papa polacco ricorda il momento della sua prima messa, lui stesso finisce per svelare il mistero che lo ha accompagnato tutta la vita: «I miei occhi si sono raccolti sull'ostia e sul calice in cui il tempo e lo spazio si sono in qualche modo “contratti” e il dramma del Golgota si è ripresentato al vivo, svelando la sua misteriosa “contemporaneità”».
Tra i tanti raccontati, però, l’episodio che più ha colpito la platea dell’eremo di Bienno, e che si inserisce nella cornice di una delle tante passeggiate sul Massiccio del Gran Sasso, è senza dubbio quello che ha come fuochi l’islam e l’Europa. Monsignor Longhi fa precedere le parole del santo polacco – oggettivamente impressionanti – da un prologo molto umano, a tratti inaspettatamente ilare, fatto di battute, di panini scambiati, di rimproveri teatrali sulla pubblicazione anticipata di quel Catechismo della Chiesa Cattolica fortissimamente voluto da Wojtyla (il non attendere l’editio typica latina, infatti, innesterà errori a cui si dovrà rimediare con precipitose correzioni). In quell’occasione il Santo Padre e il monsignore, evidentemente più veloci degli altri, avevano staccato il gruppo, nel quale – come sempre quando il Papa usciva da Roma – c’era il suo segretario particolare, quel fidatissimo Stanislao Dziwisz, che nel 2006 Benedetto XVI creerà cardinale e che oggi è arcivescovo emerito della Diocesi di Cracovia. Il passaggio di mons. Longhi (con le sue tappe di avvicinamento alla terribile visione mistica del Papa) va dunque riportato interamente (la conferenza è su YouTube, dal minuto 48 è possibile guardare il passaggio che stiamo raccontando).
I due sono appoggiati ad una roccia, l’uno di fronte all’altro, mangiando un panino e aspettando l’arrivo del gruppo. Questo il racconto testuale del monsignore: «Avevo posato lo sguardo su di lui pensando che poteva aver bisogno di qualcosa, lui però si accorge che io lo guardo, aveva il fremito nella mano, era l’inizio del Parkinson. “Caro Mauro, è la vecchiaia..”, ed io subito: “Ma no, Santità, lei è giovane!”. Quando lo si contraddiceva in certi colloqui familiari diventava una belva. “Non è vero! Dico che sono vecchio perché sono vecchio!”». A parere del monsignore è proprio lo scorrere del tempo insieme all’incedere della malattia a portare il Papa polacco a sentire la necessità impellente di trasmettergli quella visione mistica. «Ecco allora che Wojtyla cambia tono e voce – continua il monsignore – e facendomi partecipe di una delle sue visioni notturne, mi dice: “Ricordalo a coloro che tu incontrerai nella Chiesa del terzo millennio. Vedo la Chiesa afflitta da una piaga mortale. Più profonda, più dolorosa rispetto a quelle di questo millennio”, riferendosi a quelle del comunismo e del totalitarismo nazista. “Si chiama islamismo. Invaderanno l’Europa. Ho visto le orde provenire dall’Occidente all’Oriente”, e mi fa una ad una la descrizione dei paesi: dal Marocco alla Libia all’Egitto, e così via fino alla parte orientale. Il Santo Padre aggiunge: “Invaderanno l’Europa, l’Europa sarà una cantina, vecchi cimeli, penombra, ragnatele. Ricordi di famiglia. Voi, Chiesa del terzo millennio, dovrete contenere l’invasione. Ma non con le armi, le armi non basteranno, con la vostra fede vissuta con integrità”».
Questa la preziosa testimonianza di chi per anni è stato a stretto contatto con il Santo Padre, e con questi ha concelebrato molte volte. Inutile sottolineare poi come la confessione di Papa Wojtyla risalga al marzo del 1993, e 24 anni fa molto diversi erano sia il quadro sociale che i numeri della presenza islamica in Europa. Non è un caso, forse, che nell’ormai dimenticata esortazione apostolica del 2003, Ecclesia in Europa, Giovanni Paolo II parlasse chiaramente di un rapporto con l’islam che doveva essere «corretto», condotto con «prudenza, con chiarezza di idee circa le sue possibilità e i suoi limiti», avendo coscienza del «notevole divario tra la cultura europea, che ha profonde radici cristiane, e il pensiero musulmano» (n.57). Pur con il linguaggio proprio di un documento magisteriale, per sua natura trattenuto, sembrava che il santo Padre implorasse l’instaurarsi di una conoscenza dell’islam «obiettiva» (n.54). Un paradigma e una sensibilità, dunque, chiari e inequivocabili, specie se si considera un altro passaggio di Ecclesia in Europa, quello in cui in cui Papa Wojtyla – dopo aver stigmatizzato «la frustrazione dei cristiani che accolgono» e che invece in molti paesi islamici «si vedono interdire l'esercizio del culto cristiano» (n.57) – parlando dei flussi migratori arrivava addirittura ad auspicare una «ferma repressione degli abusi» (n.101).
C’è da prendere atto che siamo di fronte alla lettura polically uncorrect del fenomeno islam da parte di un Papa canonizzato dalla Chiesa cattolica; una lettura prima “profetica” e poi magisteriale (non è difficile ipotizzare che la scioccante visione profetica giovanpaolina abbia influenzato la sua scrittura di Ecclesia in Europa). «L’islam ci invaderà». Forse lo sta già facendo. Mentre, inesorabile, si va spegnendo la luce sull’Europa cristiana, ridotta a una cantina piena solo di vecchi cimeli e ragnatele. “Karol il Grande” ha parlato, ancor più oggi ci invita a resistere all'invasione con la fede vissuta integralmente.