I santi impiccati: quando la pena di morte è via di santità
Non c’è un solo passo nelle Scritture, né in san Paolo né nei Padri e nemmeno in san Tommaso d’Aquino che parli contro la pena di morte. San Giuseppe Cafasso diceva che quelli che accompagnava al capestro erano i suoi «santi impiccati». Se riusciva a confessarli e comunicarli, andavano subito in Paradiso, avendo espiato con la morte violenta le loro malefatte. L’esempio è illustre: Gesù in croce dice al Buon Ladrone (il quale riconosce come giusta la pena inflittagli) «oggi sarai con me in Paradiso». Sul tavolo della Congregazione per la Cause dei Santi ci sono due dossier riguardanti due condannati a morte negli anni Cinquanta: uno ghigliottinato, l’altro garrotato. Perché la pena di morte può essere via di santità.
-TRA EVOLUZIONE E RIVOLUZIONE DELLA DOTTRINA di Lorenzo Bertocchi
C’è una scena esemplare nel film Il giustiziere della notte 2, precisamente alla fine. Un bieco individuo ha sequestrato e violentato un’adolescente giapponese, la quale per la vergogna si suicida. Il compianto Charles Bronson, catturato il laido personaggio, lo porta in guardina. Qui quello viene subito artigliato da nerboruti colleghi di cella che lo trascinano via per fargli il servizietto. E Bronson esclama, esultante: «Oh, questa è giustizia!». Infatti, ci si faccia caso, a Hollywood sanno benissimo qual sia la differenza tra giustizia e legalità, anche se sono tutti liberals.
Non c’è giallo, thriller o action movie che non finisca con la morte del cattivo, morte tanto più efferata quanto è stato efferato lui. Attualmente nelle sale circola Skyscraper con mister muscolo Dwayne Johnson. Qui il cattivo, che ne ha fatte di cotte e di crude per due ore, precipita dal grattacielo del titolo, alto cento metri. Ma che si limiti a precipitare, spinto dall’eroe, non basta, perché davvero i suoi crimini sono disgustosi (e, soprattutto, ha messo in gravissimo pericolo la famiglia, bambini compresi, del protagonista, il quale, pur privo di una gamba, ha dovuto combattere con la forza della disperazione).
Così, l’eroe, nello scaraventarlo giù, gli mette in mano una bomba, e il cattivo a terra ci arriva in brandelli. Ebbene, quello che abbiamo descritto è il sentire comune. Non solo americano, dato che Hollywood esporta in tutto il mondo. La riprova? Tutti quei film in cui il cattivo viene consegnato alle patrie galere ma il codice penale non basta alla coscienza di chi si è visto distruggere la vita. Né a quella dello spettatore, che esce di sala contento solo quando vede il cattivo morire ammazzato. Detto questo, la modifica del catechismo sulla pena di morte, politicamente parlando, è una mossa che avrà qualche efficacia, forse, solo riguardo agli Usa. Degli altri Paesi in cui vige la pena di morte non ce n’è uno, Giappone compreso, su cui l’influenza della Chiesa cattolica abbia un minimo di presa. Perciò, si tratta di una trovata che lascerà il tempo che trova.
Ci si potrebbe, tuttavia, chiedere come mai la Chiesa abbia aspettato duemiladiciotto anni prima di cassare la voce corrispondente dal catechismo. Ora, a ragionarci sopra si corre il rischio, di cui siamo ben coscienti, di passare per forcaioli o per eretici che osano contraddire il papa. Non è così, anche perché, ripetiamo, la cassazione suddetta è priva di impatto significativo. Ma il problema è la giustificazione teologica, che non è stata influenzata né da Cesare Beccaria né dalla manzoniana Colonna Infame. Non c’è un solo passo nelle Scritture, né in san Paolo (anzi), né nei Padri e nemmeno in san Tommaso d’Aquino che parli contro la pena di morte.
San Giuseppe Cafasso (1811-1860), anzi, diceva che quelli che accompagnava al capestro, in qualità di cappellano delle carceri torinesi, erano i suoi «santi impiccati». Infatti, se riusciva a confessarli e comunicarli, andavano subito in Paradiso, avendo espiato con la morte violenta le loro malefatte. L’esempio è illustre: Gesù in croce dice al Buon Ladrone (il quale riconosce come giusta la pena inflittagli) «oggi sarai con me in Paradiso» (Lc 23, 43). Sul tavolo della Congregazione per la Cause dei Santi ci sono due dossier riguardanti due condannati a morte negli anni Cinquanta: uno, francese, ghigliottinato, l’altro uno spagnolo, garrotato.
Entrambi pluriomicidi confessi. In carcere, tutti e due, si erano convertiti e avevano edificato col loro comportamento perfino i loro confessori. Sono in attesa di beatificazione. Ma erano ancora tempi in cui si badava più al «giustizia è fatta» che alla «riabilitazione» del reo. La sensibilità è mutata, si dice (ditelo a Hollywood). Di certo non quella delle vittime, comunque. Nei secoli cristianissimi le cose andavano invece così: avete presente Gilles de Rais? Sì, «Barbablù», sadico serial killer di ragazzini ai tempi di Giovanna d’Arco.
Al processo confessò tutto, e tanto erano ributtanti i suoi crimini che il vescovo, presente, andò a coprire il volto del crocifisso. Gilles si pentì in modo straziante, piangendo e battendo la fronte sul pavimento. Quando, singhiozzando, chiese ai genitori delle sue vittime, presenti, di pregare per lui, l’intera aula si inginocchiò commossa. Il suo pentimento era vero? Sì, perché lo aspettava la forca e lui lo sapeva bene. Infatti, fu giustiziato.