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TESTIMONIANZA

I martiri di Nagasaki, una storia da conoscere

L'evangelizzazione del Giappone e il martirio di Paolo Miki e i suoi 25 compagni nel 1597 rappresentano l'inizio di una storia straordinaria. Paolo Miki disse dalla croce: «L'unica ragione per cui sono condannato è che ho insegnato il Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo. Sono felice di morire per esso e accetto la morte come un grande dono del mio signore». 

Ecclesia 15_03_2015
Paolo Miki e compagni

Più di 400 anni fa, Nagasaki era la prima e unica città cristiana del Giappone. Il 15 agosto del 1549, San Francesco Saverio sbarcò a Kagoshima, e fu allora che i giapponesi sentirono parlare del Vangelo per la prima volta. Nessun europeo era mai penetrato oltre la costa e non c'era nessun dizionario per tradurre in giapponese una lingua europea. Ciò rendeva quanto mai difficile il compito di Francesco Saverio, che cominciò a predicare parlando del Dai Nichi. Ben presto però scoprì, con sua grande confusione, che quella parola in giapponese non significava il Dio Onnipotente della Bibbia, ma era una delle manifestazioni del Buddha. Tuttavia, la fede è qualcosa che attira più delle nozioni, e i giapponesi furono così colpiti dal nobile basco che chiesero il battesimo in gran numero.

Molti capitoli della storia delle missioni cattoliche nell'era della colonizzazione sono contrassegnati da errori e abusi, ma la storia dei gesuiti in Giappone fa eccezione. Gli uomini che seguirono Francesco Saverio fecero molti convertiti nei ranghi dell'aristocrazia e del popolo con la sola forza della loro personalità, con le loro convinzioni e il loro lavoro al servizio dei malati, dei senzatetto e gli orfani. A titolo di esempio, ricordiamo che le autorità civili giapponesi hanno eretto statue per onorare la memoria di Almeida, un gesuita pioniere della chirurgia in Giappone.

Il dottor Almeida era un ricco investitore in Estremo Oriente quando entrò tra i gesuiti. Prima di pronunciare i suoi voti religiosi, fece in modo che la sua fortuna fosse investita nel lucroso commercio della seta tra Macao e il Giappone, e dispose che i dividendi fossero versati agli ospedali e agli orfanotrofi dei gesuiti in Giappone. Tali dividendi rappresentavano solo una piccola percentuale del commercio della seta, ma abbastanza per dare credito alla leggenda che i gesuiti fossero coinvolti fino al collo nel commercio dell’oro e della seta. Questa leggenda del resto è stata ripresa con grande successo qualche tempo fa nelle librerie e al cinema: Shogun.

Nel 1579, il gesuita Alessandro Valignano arrivò come superiore della missione dei Gesuiti; sapeva  essere efficace come Francesco Saverio. Gigante nella mente e nel corpo, aveva ricevuto la formazione laica dell’epoca, il Rinascimento; era un avvocato, e all'età di 27 anni era entrato tra i gesuiti. Si era immerso negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola ed era diventato un vero esperto nella preghiera e nella contemplazione, prima di essere nominato maestro di novizi. Uno dei suoi novizi fu Matteo Ricci, che sarebbe diventato famoso in Cina. Il superiore generale dei Gesuiti attribuiva grande importanza alle missioni che Francesco Saverio aveva creato in Oriente e aveva posto Valignano, allora solo di 35 anni, alla loro testa.

Valignano divenne un missionario in anticipo di parecchi secoli sui suoi tempi. Subito si rese conto degli ostacoli per l’evangelizzazione derivanti dalla situazione coloniale del tempo e richiese che i gesuiti imparassero e rispettassero la lingua e la cultura delle persone per le quali lavoravano. Non volle mettere sulle spalle degli asiatici il bagaglio culturale occidentale. I gesuiti andavano in Oriente per insegnare il Vangelo, non la cultura spagnola, portoghese o italiana. Certo, con gli asiatici si potevano condividere l'astronomia, la medicina e la scienza occidentali, ma non bisognava identificare il Vangelo con la cultura europea del XVI secolo.

Egli insistette anche sul fatto che i gesuiti dovevano preparare i giapponesi ad assumersi la direzione e, con il dispiacere di alcuni, disse che gli europei non erano superiori ai giapponesi che per la conoscenza dei Vangeli, e che in tutti gli altri campi i Gesuiti dovevano mettersi alla loro scuola. Con grande intuizione, Valignano scrisse un libro sulle abitudini e costumi del Giappone e richiese che i suoi uomini vi si conformassero. Ad esempio, vista la grande considerazione che godeva la cerimonia del tè presso i capi giapponesi, ordinò che in tutte le case dei gesuiti ci fosse un locale destinato per quella cerimonia. La politica missionaria dell'inculturazione praticata da Valignano e da Ricci guadagnò alla loro causa molti intellettuali giapponesi e cinesi.

Un buon numero di daimyo giapponesi, vale a dire di baroni feudali, divennero cristiani o almeno manifestarono un grande rispetto per la nuova religione. Uno di loro era Ukon Takayama, a volte chiamato il Tommaso Moro giapponese. Come il Cancelliere d'Inghilterra, Takayama era una delle più grandi figure politiche e culturali del suo tempo. Fu arrestato e privato del suo castello e delle sue terre perché rifiutava ogni compromesso in nome della sua fede. Il dittatore Hideyoshi provò con tutte le sue forze per trarre dalla sua parte questo tattico militare eccezionale, calligrafo e maestro di cerimonia del tè, come Enrico VIII aveva cercato di convincere il suo Cancelliere Tommaso Moro. Alla fine, Takayama fu mandato in esilio perché aveva rifiutato di rinunciare alla sua fede cristiana.

Molti samurai e decine di migliaia di semplici contadini e abitanti delle città chiedevano il battesimo. Il dittatore Hideyoshi cominciò a sentire una certa trepidazione davanti al numero sempre crescente di cristiani, soprattutto quando gli uomini del calibro di Takayama cominciarono a parlare di Cristo come del loro Shukun, loro Signore, verso il quale mostravano un attaccamento e una fedeltà assoluta, come si doveva a un vero Signore. Ma questo non minacciava forse il codice dei samurai?

Il dittatore, impressionato dai Gesuiti e dalle loro grandi conoscenze occidentali, fu in un primo tempo favorevole al cristianesimo. Improvvisamente però, in uno di quegli sbalzi di umore che gli erano abituali, lo proibì. Tutti i cristiani giapponesi dovevano rinunciare alla loro religione e tutti i missionari stranieri dovevano lasciare il paese. Per dare una dimostrazione che non scherzava, fece arrestare ventisei cristiani di Kyoto, la capitale, e li fece camminare, a marce forzate, nel cuore di un rigido inverno, fino a Nagasaki, un viaggio di trenta giorni. Essi furono crocifissi al loro arrivo.

La scelta della città di Nagasaki era intenzionale. Nel 1571, Nagasaki divenne il principale porto per le navi europee che conducevano un nuovo commercio fiorente tra la Cina (via Macao) e il Giappone. Il porto faceva parte del feudo del barone Omura, un daimyo cristiano. In passato, il daimyo aveva dato delle terre per i monaci buddisti per farne monasteri e scuole. Omura decise che le tasse portuali di Nagasaki sarebbero andate a finanziare il funzionamento delle scuole gestite dai gesuiti, le loro chiese e le case per i poveri. In questo modo, Nagasaki era diventata una città cristiana, con le sue scuole, la residenza del vescovo e un seminario, dove furono ordinati quindici sacerdoti, prima che la persecuzione distruggesse il Cristianesimo visibile.

Le ventisei vittime entrarono in città il 5 febbraio 1597 esauste per il viaggio a piedi. Il dittatore Hideyoshi, che non credeva quasi in nulla, pensava che un bagno di sangue avrebbe convinto rapidamente i cristiani di Nagasaki ad abbandonare la loro fede. A tal fine, aveva ordinato che le condanne fossero eseguite molto lentamente e in pubblico. Fu annunciato il momento del loro arrivo e una grande folla di cristiani andò loro incontro per incoraggiarli.

I ventisei furono portati alla collina Nishizaka, non lontano dalla stazione attuale della ferrovia di Nagasaki. Ventisei croci, appena allestite, erano allineate dalla cima della collina fino al porto, perché tutti potessero vedere lo spettacolo. Le vittime furono attaccate alle croci con anelli di ferro e corde. Sotto ogni croce stavano due samurai, armati di lance di bambù taglienti; aspettavano l’ordine per infilzare le loro lance nel torace dei prigionieri. L'ordine fu ritardato in modo da far crescere il terrore nei condannati e negli spettatori.

Un canto si levò improvvisamente dalla fila delle croci: «Lodate il Signore, voi tutti che siete suoi figli». Ci fu silenzio e la folla si fermò ad ascoltare. Finito il salmo, uno dei ventisei cominciò a cantare il Sanctus, quella parte della messa in latino che tutte le comunità cristiane giapponesi cantavano spesso, e che si recita poco prima della consacrazione del pane e del vino. Quando le ultime note furono cantate, da un'altra croce un francescano cominciò a recitare la più semplice delle litanie: «Gesù, Maria... Gesù, Maria...». Nella folla, i cristiani ripeterono questa preghiera; erano quattromila. Hazaburo Terazawa era l'ufficiale responsabile dell’esecuzione e toccava a lui farne personalmente il resoconto al dittatore. La sua apprensione cresceva quanto più vedeva che l’esecuzione stava diventando una dimostrazione di forza cristiana, piuttosto che lo spettacolo agghiacciante che il dittatore Hideyoshi aveva ordinato.

Uno dei ventisei chiese l’autorizzazione a prendere la parola. Era Paolo Miki, gesuita, di 33 anni, figlio di un generale dell'esercito del Barone Takayama, catechista e predicatore di grande valore. Morire bene era qualcosa di molto importante per un samurai, che spesso andava incontro alla morte con un jisei no uta, un canto d'addio. La forte voce di Miki si fece sentire: «Io sono giapponese e fratello della Compagnia di Gesù. Non ho commesso alcun reato. L'unica ragione per cui sono condannato è che ho insegnato il Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo. Sono felice di morire per esso e accetto la morte come un grande dono del mio signore».

Miki chiese alla folla se vedeva tracce di paura sul volto dei ventisei condannati. La rassicurò che essi non sentivano alcun timore, perché il cielo era una realtà. Aveva solo una richiesta di fare prima di morire: che tutta la folla abbracciasse la fede. Disse che perdonava Hideyoshi e quelli responsabili dell’esecuzione. Poi, con risoluzione e una bella voce, fece il suo canto di addio. Erano le parole del Salmo 31 che Cristo aveva detto sulla croce: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».

Terazawa diede il segnale e i samurai avanzarono con le loro lance di bambù affilate. Con grida di guerra, affondarono le loro lance. Il silenzio di tomba della folla improvvisamente si trasformò in un grido di rabbia e Terazawa rapidamente si ritirò per fare il suo resoconto. Lo spettacolo umiliante era andato storto. Il prestigio dei cristiani aumentò considerevolmente così come il numero dei battesimi.

(1. Continua) SECONDA PARTE