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MEDIO ORIENTE

Espellere Hamas da Gaza, l'unica alternativa alla guerra totale

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Guerra a Gaza: le iniziative diplomatiche, come quella al Cairo, sono finora fallite. L'unica alternativa alla guerra totale (che può anche estendersi a tutta la regione) è l'esilio delle milizie di Hamas, in un Paese loro amico. Come si fece con l'Olp di Arafat espulso dal Libano nel 1982.

- Come l'Ue ha finanziato Hamas di Lorenza Formicola

Esteri 23_10_2023
Battaglia di missili a Gaza

Il sostanziale nulla di fatto del vertice del Cairo per trovare soluzioni al conflitto tra Israele e Hamas, e ai suoi crescenti rischi di allargamento, contribuisce a individuare una sola via d’uscita da una guerra che minaccia di infiammare Medio Oriente e Mediterraneo Orientale.

Oggi la situazione intorno alla Striscia di Gaza non sembra offrire alternative a un’operazione militare israeliana, lunga e sanguinosa, all’interno della Striscia di Gaza con l’obiettivo di eliminare i circa 25mila combattenti di Hamas, Jihad Islamica Palestinese e altre milizie minori. Del resto la violenza dell’incursione di Hamas in territorio israeliano, iniziata il 7 ottobre, impone a Gerusalemme di dimostrare la propria forza e  “vendicare” (verbo utilizzato dal premier Benjamin Netanyahu) i propri morti e i 220 ostaggi ancora in mano ai miliziani, con l’annientamento di Hamas.

Solo così Israele potrà dirsi vincitore nella guerra e pure sul fronte interno, dopo che un sondaggio realizzato dal Lazar Institute con Panel4All per il quotidiano Maariv, ha messo in luce che l’80% degli israeliani, compreso il 69% di coloro che hanno votato per il partito Likud, ritiene che il governo di Benjamin Netanyahu abbia molte colpe per l’attacco di Hamas. Inoltre, il 65% degli intervistati è a favore dell’invasione della Striscia di Gaza e il 51% è favorevole a un’operazione su vasta scala contro Hezbollah sul confine libanese.

Sondaggi a parte Hamas ha già vinto la guerra sul piano politico-strategico poiché la reazione dello Stato Ebraico ha già bloccato il processo di pacificazione e riavvicinamento tra Israele e molte nazioni arabe, vero obiettivo dell’attacco del 7 ottobre: non a caso Israele sta chiudendo o riducendo le attività in 20 ambasciate, incluse quelle in Turchia, Bahrein, Giordania, Marocco ed Egitto.

Ora Hamas deve solo sopravvivere alla dura rappresaglia israeliana per ergersi a totale vincitore di questa guerra: è sufficiente che continui a combattere con tenacia mostrando ai media un crescente massacro di civili uccisi e di distruzioni di case, scuole e ospedali con lo scopo di sollecitare l’opinione pubblica occidentale a esercitare pressioni affinché Israele fermi l’offensiva, come del resto è già accaduto innumerevoli volte e sta accadendo in questi giorni.

Quanto accaduto col bombardamento (le responsabilità non sono chiare) dell'ospedale di Gaza ha esacerbato gli animi e se in Europa politica e media (ma non l’opinione pubblica) sembrano appiattite su posizioni filo-israeliane, nel mondo arabo si registrano reazioni diametralmente opposte: scenario che non favorisce una mediazione nè la possibilità che Stati Uniti ed Europa possano mediare l’attuale crisi. Meglio ricordare che tale guerra è un disastro per l’Europa che dopo aver rinunciato all’energia russa puntava sugli enormi giacimenti di gas del Mediterraneo Orientale per i suoi approvvigionamenti e si appoggia oggi per le forniture su nazioni nordafricane schieratesi, senza alcuna esitazione, al fianco di Hamas e della causa palestinese.

L’ipotesi caldeggiata da molti di sfollare i 2,3 milioni di civili palestinesi dalla Striscia di Gaza, per metterli a riparo dall’offensiva israeliana, è stata già scartata soprattutto dalle nazioni arabe più vicine, come Egitto e Giordania. Il territorio del Sinai egiziano costituisce di fatto l’unico sbocco possibile per una simile iniziativa a cui il Cairo si oppone con determinazione. Neppure la Giordania, che già confina con la Cisgiordania palestinese, ha certo interesse a portarsi in casa parte della popolazione di Gaza indottrinata al jihad e certo ideologicamente ostile alla monarchia Hashemita (alleata dell’Occidente e degli Stati Uniti) come lo furono al-Qaeda e l’Isis.

Per tutte queste ragioni, l’unica ipotesi negoziale credibile su cui lavorare per interrompere le ostilità o ridurne la durata, le vittime e le devastazioni appare quella di evacuare dalla Striscia di Gaza i miliziani di Hamas, Jihad Islamica Palestinese e di altri gruppi minori presenti in quel territorio per trasferirli verso nazioni che sostengono tali movimenti e già ospitano formazioni e milizie ostili a Israele.

Escludendo la disponibilità all’accoglienza del ricco e piccolissimo Qatar (ben disposto a finanziare Hamas e a ospitarne i leader, ma non certo i combattenti) i possibili candidati potrebbero essere l’Iran o più facilmente la Siria mentre il fragile Libano rischierebbe di sprofondare in una nuova guerra civile con l’innesto di una ulteriore milizia jihadista.

Si tratterebbe di un’operazione simile a quella attuata nell’agosto 1982 in Libano, quando l’invasione israeliana (Operazione Pace in Galilea) tesa ad eliminare la minaccia dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) che colpiva il territorio israeliano dal Libano, determinò una mediazione statunitense che con il contributo di truppe italiane, americane e francesi permise l’uscita da Beirut dei miliziani palestinesi e il trasferimento a Tunisi di Yasser Arafat e dei vertici dell’Olp.

Certo oggi Hamas non sarebbe disponibile a sloggiare dalla Striscia di Gaza ma la progressiva intensificazione degli attacchi israeliani e la decimazione delle milizie jihadiste potrebbero indurre a breve i leader di Hamas a cedere per evitare l’annientamento, tenuto conto che solo così si potranno risparmiare ulteriori vittime tra i civili che i miliziani hanno sempre utilizzato come scudi umani.

Il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, ha detto il 19 ottobre che la miglior soluzione per una Gaza post Hamas sia il ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) nella Striscia. “Non è l’ideale, ma se mi chiedete quale debba essere l’exit strategy, dovrebbe essere di aiutare la comunità internazionale ad aiutare l’Anp a riprendere il controllo. Non ci fermeremo finché Hamas non se ne sarà andato”, ma “combattiamo contro Hamas, non contro la gente di Gaza”, ha sottolineato.

Il tema di salvaguardare la popolazione da ulteriori sofferenze vedrebbe forse convergere anche parte del mondo arabo a sostegno di una simile iniziativa diplomatica, di certo gradita all’Egitto che allontanerebbe dai suoi confini un gruppo jihadista, costola ideologica di quei Fratelli Musulmani che il Cairo ha posto fuori legge, ma pure alla Giordania che vedrebbe forse positivamente l’allontanamento delle milizie palestinesi più estremiste.

Per Hamas si tratterebbe di una “gloriosa sconfitta” che non le impedirebbe di riarmarsi e riorganizzarsi altrove grazie ai suoi sponsor, compensata dalla vittoria politica di aver compromesso l’avvicinamento tra Stato Ebraico e mondo arabo e dal fatto di essere comunque sopravvissuta alla rabbiosa risposta militare israeliana.

Israele otterrebbe una vittoria completa, anche se non totale, con il disarmo e l’allontanamento di Hamas, garantendo finalmente la sicurezza dei confini meridionali. Il territorio palestinese potrebbe tornare sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, entità certo debole ma che uscirebbe rafforzata da un simile accordo, soprattutto se venisse previsto lo schieramento di una forza multinazionale, della Lega Araba estesa ad altri paesi o dell’Onu, in grado di offrire garanzie a israeliani e palestinesi.