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DENUNCIA DI BRANDMULLER

Dopo l'autonomia la Chiesa tedesca vuole il dominio

Le ambizioni della Chiesa tedesca svelate dal cardinal Brandmuller: «Non si tratta “solo” di rivendicare una propria autonomia, ma anche di voler esercitare con presunzione, una “positiva influenza” su tutta la Chiesa». Dal cedimento agli ideali illuministi del '700 al Sinodo di oggi passando per il condizionamento del Concilio fino alle opposizioni sistematiche a San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: le tappe di un progetto politico-religioso e l’arroganza di una chiesa nazionale giunta all'atto finale della sua sfida con Roma.
- APPELLO DI CORDES AI TEDESCHI di Nico Spuntoni 

Ecclesia 05_10_2019
Il cardinal Marx

Il cardinale Walter Brandmüller ha dedicato un interessante articolo che aiuta a capire le radici storiche della continua e montante deriva scismatica della Chiesa in Germania, una deriva che si sta concretizzando nel prossimo Sinodo rivoluzionario.

«Senza Giuda e senza Roma, ricostruiamo il Duomo tedesco»: è queste l’espressione che riassume il progetto politico-religioso di Georg von Schönerer, esponente di spicco del movimento pangermanista dell’XIX-XX secolo, ed ispiratore del folle progetto nazista; affermazione che esprime, senza troppa diplomazia, un ideale che fermenta da lungo tempo nella cultura tedesca. Una fiamma che a volte divampa, causando numerosi danni, e poi torna ad essere solamente brace sotto la cenere; ma pur sempre brace.

Il primo ideologo di una chiesa nazionale tedesca fu Ignaz Heinrich von Wessenberg (1774-1860), sacerdote, chiamato ad essere vicario della diocesi di Costanza da Mons. Karl Theodor von Dalberg. Wessenberg diede presto prova del suo cedimento agli ideali illuministi, mettendosi a proibire pellegrinaggi, processioni e ad osteggiare devozioni come il Santo Rosario. Non meno evidente fu la sua deriva febroniana, una corrente teologica che sostanzialmente negava la superiorità del Papa sui concili e parteggiava per la fondazione di chiese nazionali. Wessenberg si mise a lavorare per la creazione di un rituale tedesco, differente da quello del resto della Chiesa latina e soprattutto per l’organizzazione di una chiesa tedesca, con a capo un primate; idea che giunse a presentare durante il Congresso di Vienna. La Santa Sede, dopo un lungo braccio di ferro, dovette sopprimere la diocesi di Costanza e “costrinse” il ribelle Wessenberg, che pure si era distinto per una vita morale integerrima e dedita a sollevare gli indigenti, a ritirarsi.

Se Wessenberg non riuscì ad oltrepassare il limite delle idee, nel 1844 due sacerdoti apostati, Johannes Ronge e Johannes Czerski (o Gersky) passarono ai fatti, fondando una chiesa nazionale tedesca, in aperta opposizione con l’insegnamento della Chiesa cattolica. Il successo fu immediato ed in poco tempo un centinaio di comunità, soprattutto della Germania settentrionale ed occidentale, aderirono alla “nuova chiesa”. Ma fu un fuoco di paglia. Già nel 1860 non rimase più nulla e Ronge si ridusse all’attività di libero pensatore anticlericale.

A riavvicinare i cattolici tedeschi alla Sede apostolica, fu la persecuzione avvenuta durante il Kulturkampf di Bismark: il sogno dell’unità tedesca si tradusse concretamente nell’espulsione di numerosi vescovi e sacerdoti; i cattolici finalmente aprirono gli occhi e cercarono (e trovarono) il loro punto di riferimento nel Pontefice romano. I sogni di una chiesa nazionale tedesca, dunque, per un po’ svanirono, per ritornare però durante la crisi modernista e smorzarsi nuovamente durante il regime nazista e la guerra. Ancora una volta fu il papa, in questo frangente Pio XII, a difendere la Chiesa tedesca, la sua autentica autonomia dalle ingerenze del totalitarismo e, in un momento di isolamento internazionale della Germania, a ridare dignità ad una nazione distrutta ed umiliata.

Man mano che diminuivano le tribolazioni, l’arroganza di una chiesa nazionale rialzava la testa per esplodere con l’indizione del Concilio Vaticano II: «Si è tentati di pensare – afferma il cardinale Brandmüller -  che, con l’annuncio del Concilio, Giovanni XXIII abbia aperto il “vaso di Pandora” tedesco». La storia del Vaticano II di certo attesta le grandi manovre di numerosi vescovi tedeschi (e non solo) per piegare il Concilio in una direzione decisamente progressista e mettere così le basi per una contestazione sistematica dell’insegnamento della Chiesa.

Brandmüller ricorda che la Deutsche Katholikentag (ritrovi dei cattolici tedeschi, a cadenza biennale) del 1968 divenne il triste scenario di volgari proteste contro l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI. La Conferenza episcopale della Repubblica Federale Tedesca cercò di calmare le acque a modo suo, ossia relativizzando il divieto della contraccezione presente nell’enciclica. In questo frangente, accadde un fatto increscioso: «Il cardinale Döpfner, presidente della Conferenza episcopale della Germania occidentale, tenne nascoste delle lettere del cardinale Bengsch, che a nome di tutti i vescovi della Repubblica Democratica Tedesca esortava all’accettazione dell’enciclica e non le fece mai arrivare al destinatario. Un evento inaudito!».

Sempre nel 1968, i vescovi della Germania occidentale, insieme ad altri confratelli nell’episcopato, sottoscrissero la Dichiarazione di Konigstein, nella quale si ribadiva che in materia di contraccezione, non si doveva richiedere obbedienza, ma lasciare alla coscienza dei coniugi l’esercizio della propria responsabilità.

Pochi anni dopo, spiega Brandmüller, «in questa atmosfera antiromana, […], negli anni 1971-1975, venne convocato il sinodo delle diocesi della Germania. Questo sinodo rappresentò già nel proprio statuto una rottura netta rispetto alla tradizione secolare della Chiesa, poiché concesse ai laici, rappresentati nel sinodo con lo stesso numero di membri che avevano vescovi e sacerdoti, uguale potere di voto. In questo modo, i conflitti diventarono inevitabili [...]. Il professor Joseph Ratzinger e Mons. Karl Foster, all’epoca segretario della Conferenza episcopale, abbandonarono allora il sinodo in segno di protesta».

Infine, l’opposizione sistematica al pontificato di Giovanni Paolo II, con Ratzinger, dal 1981, come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. La resistenza tedesca divenne particolarmente veemente quando Giovanni Paolo II «proibì ai consultori cattolici di rilasciare il “documento di consulenza”, richiesto dalla legge per poter autorizzare un aborto legale, che era de facto una condanna a morte per il bambino non nato. Ancora oggi non si riesce a comprendere il perché della resistenza impetuosa e ostinata da parte dei vescovi tedeschi, soprattutto del cardinale Lehmann e del vescovo Kamphaus. Solo a partire dall’anno 2000 si decisero ad obbedire al Papa. Tuttavia si formò come resistenza l’associazione “Donum vitae” [vedi qui] - una denominazione veramente cinica -, che continuò a rilasciare i documenti di consulenza».

Sempre in quegli anni, nel 1989, venne pubblicata la famosa Dichiarazione di Colonia, firmata da duecento teologi di lingua tedesca.

Ma oggi, fa notare Brandmüller ci troviamo di fronte ad una pretesa ulteriore, da parte della Conferenza episcopale tedesca: non si tratta “solo” di rivendicare una propria autonomia su questioni che riguardano la Chiesa universale, ma anche di voler esercitare, non senza una certa presunzione, una “positiva influenza” su tutta la Chiesa, come espresso dal cardinale Marx nella sua lettera del 12 settembre scorso al Cardinal Ouellet.

Articolo con la collaborazione di Maria Stolz