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100 ANNI DI CALVINO / 22

Cercare e dare spazio a ciò che inferno non è

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Ne Le città invisibili Kublai Khan rappresenta lo sforzo umano di misurare e comprendere tutta la realtà. Marco Polo, però, invita l’imperatore ad uno sguardo diverso...

Cultura 30_10_2023

Le città invisibili sono un prodotto della fantasia, della memoria, del desiderio. Sono il tentativo di fissare città ideali che si contrappongano alle città reali che negli anni in cui scrive Calvino assistono sempre più alla perdita delle radici e delle tradizioni culturali, come avverte l’autore in Eremita a Parigi: «Le città si stanno trasformando in un’unica città, in una città ininterrotta in cui si perdono le differenze che un tempo caratterizzavano ognuna. Quest’idea, che percorre tutto il mio libro Le città invisibili, mi viene dal modo di vivere che è ormai di molti di noi: un continuo passare da un aeroporto all’altro, per fare una vita pressoché uguale in qualsiasi città ci si trovi».

Ne Le città invisibili l’imperatore Kublai Khan rappresenta lo sforzo umano di misurare e comprendere tutta la realtà, come se la conoscenza avvenisse attraverso l’uso di una ragione che delimiti il conoscibile e lo contenga all’interno di confini. Lungi dall’essere una chiusura, ogni attività conoscitiva presuppone una finestra spalancata sul reale che apre nuove prospettive e altri orizzonti. La conoscenza non è un possesso, perché il reale è sempre più ampio di ogni possibilità di piena comprensione umana. Nello stesso incipit del romanzo il narratore sottolinea la precarietà e il destino fallimentare cui è destinata ogni pretesa umana di conoscenza. In corsivo (perché è la cornice del racconto che lega tutte le descrizioni delle città) leggiamo: Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli.

Lo stesso uso della lingua o degli altri mezzi è una riduzione della complessità della realtà. Ne è ben cosciente Calvino che nell’intervista rilasciata nel 1967 a Madeleine Santschi sostiene: «Non credo al realismo. La letteratura, come la matematica, è astrazione e formalizzazione. […] Quando scrivo qualcosa di realistico, non faccio che servirmi d’uno di quei particolari metodi d’astrazione che la nostra epoca considera realistici. […]. Io credo che esiste la realtà e che ci sia un rapporto (seppur sempre parziale) tra la realtà e i segni che la rappresentano. […] Il mondo esisteva prima dell’uomo».

Nel 1973 Calvino avverte che, se prima era considerato un illuminista, ora è accusato di rappresentare nelle sue opere la sconfitta della ragione e di non credere alle «magnifiche sorti e progressive» della Ginestra leopardiana. Prontamente ribatte: «D’essere settecentesco, illuminista, razionalista, come dicono i critici, non l’ho mai né confermato né smentito. Lo dicevano per farmi un complimento. […] Ulisse mi è sempre stato simpatico. […] Il concetto di sistema può essere una trappola, se lo si prende come un meccanismo rigido» (in Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche).

Tra l’altro, non solo la ragione mostra tutti i suoi limiti a comprendere la realtà incontrata, non solo le parole costituiscono una rappresentazione parziale e riduttiva del mondo, ma lo stesso imperatore, sconfortato alla fine del racconto di Marco Polo, si lascia andare ad una riflessione cinica e priva di speranza: «Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente».

Marco Polo, però, invita l’imperatore ad uno sguardo diverso, rendendosi così interprete dell’auspicio di Calvino: «L'unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo». Marco Polo invita l’imperatore ad abbandonare ogni scetticismo e a non smettere di cercare la città perfetta. Spiega a Kublai Khan: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Calvino spiega che le ha chiamate città invisibili «perché per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti, bisogna per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite» (intervista rilasciata a Claudio Marabini, 1975). Una volta ancora lo scrittore sottolinea la necessità di rinunciare a qualsiasi ideologia, a definizioni già date e ad apriorismi.

La conclusione de Le città invisibili richiama l’epilogo de La giornata di uno scrutatore in cui si intravede l’immagine della città perfetta all’interno della città imperfetta. Il protagonista di quel romanzo, Amerigo Ormea, assiste ad una scena piena di carità e di simpatia. Lo scrutatore vede passare donne nane nel cortile «spingendo una carriola di fascine». Il carico è per loro pesante. Sopraggiunge «un’altra, grande come una gigantessa» e lo spinge, quasi di corsa, e sorride, e dopo di lei tutte sorridono. Un’altra, pure lei grande, spazza il cortile con una scopa di saggina. Amerigo comprende che «anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, […] l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città».