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DOPO LA MORTE

Alfie, per i cristiani è il tempo della responsabilità

Non si può piangere soltanto, su vicende come quella di Alfie. Si deve contestare questa disumanità, e per i cristiani significa una autentica esperienza di essere popolo di Dio. È la certezza di una esperienza di vita che è profonda e vera, e quindi deve essere comunicata a tutti.

Editoriali 01_05_2018
Alfie Evans

Ho aggiunto nei giorni scorsi il mio cordoglio per la morte di Alfie, individuando anche la mostruosa disumanità che lo ha sacrificato in nome di una vita congrua che sembrava non potesse vivere secondo i più terribili dettami dell’eugenetica anglo-nazista. È una eugenetica che rivive nel fondo di tanti atteggiamenti di questa Inghilterra che sembra destinarsi ad essere il luogo della maledizione umana.

Ho aggiunto il mio cordoglio, ma non vorrò certo tornare ogni volta nella lunga fila di queste morti che si preannunciano ad agitare un momento di commozione. Non sono quello il cui apporto è nel lanciare palloncini bianchi o blu, e non concepisco gli interventi di uomini di Chiesa, quale anch’io sono, che esprimono soltanto del puro sentimentalismo.

Alfie pone una questione sostanziale al popolo. Al popolo umano, di questa società, ancora prima che al popolo cristiano. O comunque con non minor forza al popolo umano che non a quello cristiano.

Gli adulti di questa società devono decidere: se assumersi la responsabilità di guidare consapevolmente la propria vita e di coinvolgere i propri figli e nipoti dentro questo cammino umano; o se mettersi in un angolo e guardare ostentatamente da un’altra parte, come dice con una espressione di grande concretezza l’attuale papa Francesco. Mettersi in un angolo e guardare dall’altra parte mentre le generazioni si distruggono l’una dopo l’altra per mancanza di autentiche proposte di vita.

La vicenda di Alfie, la sua drammaticità, dimostra che nonostante tutto il popolo di cui egli era figlio, che nei più vari luoghi della terra l’ha sentito come espressione del suo esser popolo. Questo popolo non è ancora morto.

Un uomo di chiesa come me non può anzitutto se non preoccuparsi che la Chiesa diventi un luogo di educazione di questo popolo. Che la Chiesa superi la tentazione intellettualistica, soggettiva, spiritualistica di chiudersi nel privato della coscienza degli uomini. E sfidi l’uomo di questo tempo, come ha sfidato gli uomini di ogni tempo, con una proposta alta: «una proposta alta di vita» come ci ricordava l’indimenticabile e indimenticato papa Benedetto. Una misura alta della vita, una misura in cui la ragione sia messa al centro del cammino umano e cerca il senso ultimo delle cose. Il cuore, che cerca di ospitare, di attuare i grandi desideri di cui parla Sant’Agostino. Soprattutto c’è bisogno di un popolo che, facendo un’esperienza di vita nuova e adeguata, tenta di comunicarla inesorabilmente con grande apertura e grande comprensione, proponendola a tutti gli uomini.

Non si può piangere soltanto, su queste vicende che dimostrano questa disumanità dilagante. Si deve contestare questa disumanità, e la contestazione di questa disumanità per i cristiani significa una autentica esperienza di essere popolo di Dio, una autentica esperienza di salvaguardia piena delle dimensioni fondamentali del cuore umano. È la certezza di una esperienza di vita che è profonda e vera, e quindi deve essere comunicata a tutti.

Non mi voglio aggiungere alle geremiadi, che pure sono un aspetto positivo e nonostante tutto si levano, si sono levate e si leveranno.

Come uomo di Chiesa preferisco vivere e aiutare coloro che intendono accettare questa proposta, un rinnovamento integrale della nostra esperienza di vita, che è una capacità e volontà di comunicare questa esperienza nuova di vita a tutti quelli che ci circondano.

Assumerci questa responsabilità è la cosa più matura a cui ci richiama Alfie. Soltanto se la vivremo egli non sarà morto invano.

* Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio