Vescovi, gamba tesa e sacco a pelo: è utopia, non carità
I preti che dormono sui sagrati e i vescovi che si offrono di ospitare i clandestini della Sea Watch. A quei poveretti oltre a un po' di cibo non si riuscirà a offrire nessuna integrazione, vagabonderanno come gli altri dell'Aquarius. Abbandonata l'evangelizzazione, è questa la carità di cui andare fieri? Non è forse il cascame utopistico di vecchie ideologie mondane fattesi pastorale?
Lacrime e sit-in di protesta, sacchi a pelo sui sagrati per dormire sensibilizzando. Il nuovo movimentismo di alcune parrocchie, che non si accorgono di violare la legge mentre denunciano improbabili violazioni di diritti umani sa molto di utopia anni '60.
Una lacrima alla quale cedono con ingenua e sconsiderata faciloneria quegli esponenti di Chiesa che – abusando della parabola del buon samaritano – ritengono che dovere della Chiesa sia quello di inseguire le battaglie terzomondiste e immigrazioniste imposte da ben altri poteri.
A Lampedusa c’è il parroco, don Carmelo La Magra, che dorme sul sagrato in segno di condivisione con i migranti. E lo stesso stanno facendo a Chiavari in parrocchia e a Pinerolo. Ma anche a Torino davanti alla chiesa di San Dalmazzo. Ed è proprio nel capoluogo piemontese che anche l’arcivescovo Cesare Nosiglia si è detto disponibile ad accogliere nelle strutture diocesane i 43 poveretti. Una buona azione, in fondo, non costa nulla. Solo che non è carità, ma è approfittare di un mercato degli uomini che è florido e inarrestabile per mostrarsi aperti di cuore e solidali.
Eppure, dovesse anche andare così, anche se presi in carico da una diocesi, quei migranti non perderebbero la loro qualifica di clandestini e rimarranno in Italia. Tutto questo non c’entra nulla con l’integrazione. È la prosecuzione con altri mezzi dell’intervento a gamba tesa che la Cei aveva messo in campo già per i casi Diciotti e Aquarius. Un interventismo dei vescovi nella politica che mette l'episcopato sul piano degli Stati.
Ma, nonostante i bei gesti della Chiesa italiana, sarà in Italia che faranno richiesta e sarà qui che il contribuente italiano se ne farà carico, anche se, a parole è la Chiesa a sborsare. Un richiedente asilo deve essere riconosciuto tale dallo Stato e non dal consiglio pastorale di una parrocchia, pur volenterosa che sia. Ed è lo Stato che dovrà mantenerlo fino alla decisione finale. Che quasi sempre sarà il rifiuto dello status di protezione.
Una buona mossa di immagine per la diocesi e vescovi in bella vista, ma quanto rispettosa davvero della dignità di questi poveretti ai quali non si potrà offrire un lavoro dignitoso né indipendenza e nemmeno integrazione, che è cosa ben diversa dall’accollarsi l’onere dei costi?
Ma una volta sistemata l’immagine, che cosa farà la Chiesa di queste persone? Il suo compito non è quello di accogliere come un ostello della gioventù, ma è evangelizzare. Anche il migrante. È questo il modo migliore di integrare. Invece, diventando soggetto politico e dimenticando la chiamata universale alla santità alla quale tutti sono chiamati, anche i migranti clandestini, la Chiesa non fa altro che illudere questi poveretti ai quali, dopo aver dato un po’ da mangiare e un tetto, non si avrà nient’altro da offrire che il vagabondaggio e l’abbandono nelle assolate periferie italiane. I casi degli ospiti dell'Aquarius lo dimostrano. È questa la carità di cui andare fieri? Non è forse il cascame utopistico di vecchie ideologie mondane fattesi pastorale?