Terrorismo, intelligence ok, ma i giudici "steccano"
La recente ondata di arresti di fiancheggiatori dell'Isis dimostra che la macchina dell'intelligence funziona. Merito dello scambio di informazioni tra inquirenti, cosa che in Europa invece è una mancanza ormai costante, con conseguenze gravi, come dimostra il caso della rambla di Barcellona. Il problema è costituito dalla fase giudicante, dove spesso i giudici non capiscono la minaccia dei gruppi salafiti. «E' come se ai tempi delle Br qualche giudice avesse avuto dubbi sulla matrice terroristica dei gruppi armati». Intervista all'ex sottosegretario agli Interni Mantovano.
Nei giorni precedenti la Pasqua le cronache si sono occupate di tre grosse operazioni antiterrorismo condotte con successo dalla magistratura italiana. Dall'arresto dell’imam di Foggia, nel cui centro di cultura islamica si nascondeva una madrassa che indottrinava i bambini al verbo dell’Is agli arresti di Latina con i probabili fiancheggiatori dell’attentatore di Berlino Anis Amri fino all’arresto di un marocchino sospettato a Torino di essere un uomo dello Stato Islamico, il bottino per le autorità italiane è di tutto rispetto.
Ma da dove nasce questa ondata di arresti? E qual è lo stato di salute delle attività di intelligence di casa nostra che ha portato a questi arresti? E’ evidentemente un risultato che parte da lontano e che è figlio di un’attività investigativa compiuta sul territorio con uomini e mezzi di tutto rispetto che non hanno nulla da invidiare, anzi, a quelli utilizzati dalle polizie del resto del’Europa dove la situazione è invece più critica.
L’Italia infatti può vantare tanti strumenti, che noi diamo per scontati, ma che la maggior parte degli stati europei non ha. Ad esempio una rete di sicurezza territoriale che si fonda sulla articolazione delle stazioni dei Carabinieri e sulla presenza in ogni città di un ufficio della Questura, la Digos, dedicato alla prevenzione delle aggressioni all’ordine pubblico, con esperienza consolidata in fatto di terrorismo.
Alfredo Mantovano, già Sottosegretario agli Interni e magistrato di lungo corso, questa situazione di eccellenza la conosce bene. «Il punto forte dell’attività inquirente italiana - spiega il magistrato ed ex politico alla Nuova BQ - è forte di un interscambio reale di informazioni tra forze di polizia e fra queste e i servizi, che passa da strutture consolidate come il Comitato analisi strategica antiterrorismo (C.a.s.a.,), istituito oltre un decennio fa, dall’ultimo governo Berlusconi». La creazione del C.a.s.a. è un unicum italiano e, se vogliamo, uno dei fiori all’occhiello del nostro sistema legislativo.
A questo si aggiunge una legislazione molto puntuale, che anticipa la difesa sul piano del contrasto già alla progettazione dell’attentato, colpendo condotte in qualche modo preparatorie dell’attività terroristica. E’ il caso ad esempio ella vastissima attività sui social di lupi solitari o personaggi ambigui, anche italiani convertiti, che dai loro profili Facebook fanno proclami alla guerra santa e che sono il primo campanello d’allarme per i magistrati nel seguire la pista di un probabile fiancheggiatore dell’Isis.
«Un’altra specificità italiana - insiste Mantovano - è la possibilità di espulsione per gravi motivi di ordine pubblico con decreto del ministro dell’Interno: quando non si riesce a intervenire sul fronte giudiziario, provvedimenti del genere allontanano effettivamente dal territorio nazionale soggetti fortemente pericolosi».
La situazione presentata è da raffrontare con quanto accade invece nel resto d’Europa, che pure ha dovuto fare i conti con attacchi terroristici di forte entità, ma che in molti casi potevano essere sventati con una attenta e soprattutto coordinata attività di intelligence.
Su questo versante Mantovano non dimentica di citare il caso dell’attentato alla Rambla di Barcellona il 17 agosto scorso.
«E’ certo che fra le cause della morte terribile di quelle 15 persone vi sia stata la mancanza di collaborazione fra la polizia regionale della Catalogna, i Mossos, e la Guardia civil. L’attentato al centro di Barcellona è stato preceduto da una esplosione che il giorno prima aveva distrutto una casa ad Alcanar, una località a un centinaio di chilometri di distanza da Barcellona. In quell’occasione morirono due persone e altre restarono ferite».
Ebbene: i Mossos intervennero sul posto e attribuirono la deflagrazione a una fuga di gas, senza dare peso al fatto che dentro l’abitazione vi fossero decine di bombole di gas: una quantità incompatibile con ordinarie esigenze familiari. Ma la polizia regionale non fece alcun approfondimento su chi ci fosse in quella casa: se avessero svolto un minimo di indagini avrebbero scoperto che sotto le macerie era rimasto ucciso un soggetto segnalato da tempo come jihadista attivo e pericoloso dai servizi di tutta Europa: Abdelbaki Es Satty, un iman marocchino proveniente da Ripoll (Belgio), che è poi risultata la mente degli attentati in preparazione e di quelli che si sono realizzati.
Secondo Matovano - e non solo - «se i Mossos avessero trasmesso queste informazioni alla Guardia Civil, le 15 persone uccise sulla Rambla probabilmente sarebbero ancora vive». Ma il problema è evidente che non sono soltanto i singoli appartenenti ai Mossos che non hanno capito nulla, ma è un problema strutturale: «In Catalogna si ha la presunzione di farcela da soli, perché la suggestione ideologica indipendentista conta di più; raccordarsi con la Guardia civil, che pure ha professionalità e informazioni maggiori, significa mettersi nelle mani della polizia dello Stato occupante e viceversa. Il referendum per l’indipendenza ha consolidato questo deficit strutturale».
Ma il deficit strutturale non investe soltanto la Spagna. «In giro per l’Europa i buchi sono tanti. Pensiamo al Belgio, lo Stato che ospita le istituzioni europee: due polizie con due lingue diverse e leggi del tutto inadeguate. Per continuare con la Germania, che ha un problema simile a quello spagnolo: esistono corpi di polizia dei Lander e dello Stato centrale, con difficoltà di interlocuzione. O la Francia: si pensi all’assenza di barriere sul lungomare di Nizza in occasione della Festa nazionale, nel luglio 2016».
Dunque l’Italia può vantare di essere almeno qui all’avanguardia. Ma la situazione nel nostro Paese non è rosea né il pericolo terrorismo islamico si può dire debellato né tenuto sotto controllo. A fare da contraltare a un’eccellente attività investigativa infatti, compare la seconda fase, quella giudicante, che mostra invece segni di profonda carenza di mentalità.
Per questo secondo Mantovano è necessario «migliorare il contrasto strettamente giudiziario che mostra un dato consolidato: il tratto “timido” di troppi giudicanti italiani nella repressione del terrorismo di matrice islamica».
Certo, la risposta giudiziaria non è risolutiva, è solo il tassello, finale, di un mosaico, però leggendo provvedimenti giudiziari che in Italia si susseguono da oltre un decennio, è legittimo domandarsi «quanto sia adeguata su questo versante la consapevolezza in senso culturale dei giudicanti italiani. Dei giudicanti dunque, più che dei requirenti, per i quali invece la conoscenza del fenomeno si è quasi sempre mostrata puntuale.
«Ricordare qualche pronuncia fa cogliere il senso dell’emergenza: l’8 gennaio 2004, il gip di Napoli rigetta una richiesta di custodia in carcere per indagati di costituzione di una rete a sostegno del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, e più in generale del Gruppo islamico armato, con la motivazione non che manchino gli indizi, ma che il Gspc e il Gia non sarebbero organizzazioni terroristiche; Il 24 gennaio 2005, il gip di Milano esclude la qualifica terroristica per Ansar al Islam, che sarebbe “solo” una “organizzazione combattente islamica”, e quindi respinge la richiesta di arresto di appartenenti a sue cellule presenti in Italia».
E ancora: il 9 maggio e 18 novembre 2005 la Corte di assise di Milano con la c.d. operazione Bazar e il Gip di Brescia ancora volta per appartenenti al Gspc depositano decisioni analoghe, di minimizzazione del fatto, pur in presenza di indizi importanti. Saltando la rassegna, che è lunga, arriviamo ai nostri giorni: «Bassam Ayachi, arrestato a Bari nel 2008, è condannato in primo grado a 8 anni per gravi fatti di terrorismo, è assolto in appello con una sentenza che poi viene annullata dalla Cassazione; nel frattempo però era tornato in circolazione, dileguandosi. Si può aggiungere il Gip di Lecce, che nel febbraio 2015 scarcera perché “profughi” (ma non avevano presentato domanda di asilo) cinque arrestati dopo essere sbarcati con documenti contraffatti e con filmati di bombardamenti e di esecuzione di attentati nelle memorie dei cellulari».
Il problema per Mantovano non è l’ignoranza delle norme, ma la non corretta conoscenza della realtà di fatto del terrorismo di matrice islamica. «E’ come se all’epoca delle Br fossero sorti dubbi sulla loro natura terroristica. Ma è anche come se oggi un magistrato che si occupa di mafie ignorasse la differenza fattuale fra Camorra e Ndrangheta. E’ un limite che si supera a condizione di prendere atto che esiste. E per fare questo è necessario investire nella formazione dei giudici».