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LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE

Strangolamento o eutanasia? Dipende dal sentire comune

Anziano strangola la moglie affetta da Alzheimer. I legali insistono per concedergli le attenuanti di valore etico, basate su leggi e sondaggi pro eutanasia. La Cassazione lo condanna, ma non concede le attenuanti perché nella società non c'è ancora un generale apprezzamento positivo dell'eutanasia. Pericoloso far entrare nel giudizio il criterio di sentire comune: tra qualche anno che cosa accadrà? 

Vita e bioetica 16_02_2018

Nel marzo del 2014 un pensionato di 83 anni strangolò con una sciarpa la moglie di 88 anni perché malata di Alzheimer. “Non ce la facevo più” confessò l’uomo agli agenti del commissariato fiorentino di San Giovanni. Fu condannato a sette anni e otto mesi di reclusione. Dopo l’appello la vertenza è arrivata in Cassazione che ha confermato la condanna.

I difensori avevano chiesto ai giudici di mitigare la pena appellandosi ad alcune pronunce di colleghi stranieri, alle normative pro-eutanasia vigenti all’estero, alle sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo e pure ai sondaggi di opinione sulla “dolce morte”. Nulla da fare.

I legali inoltre avevano tentato di persuadere i giudici facendo leva sul fatto che ormai appare valore condiviso dalla società "quello di porre fine alle sofferenze della persona, conformemente ai suoi desideri espressi in vita, rimarcandosi, al riguardo, le differenze con l'eutanasia". Il gesto del pensionato non poteva essere qualificato come eutanasia perchè in quel caso "sussisteva l'ulteriore elemento" di aver posto fine "alle sofferenze di un soggetto amato, insieme all'ossequio della volontà di chi non era più in grado di esprimerla". Ma per eutanasia – ribattiamo noi – si intende proprio un’azione che provoca la morte di una persona al fine di eliminare ogni suo dolore. Si tratta né più né meno che una forma di omicidio o suicidio compiuto con finalità pietistiche. Esattamente la condotta assunta dal pensionato fiorentino.

Ma lasciamo la parola ai giudici della Cassazione su questo particolare aspetto. Da una parte i magistrati hanno ammesso che l’imputato ha preso una decisione "difficile e disperata" quando era ormai "incapace di sopportare le sofferenze e l'inarrestabile decadimento fisico e cognitivo della moglie". Su altro fronte non hanno concesso l'attenuante di aver agito "per motivi di particolare valore etico".

In cosa consiste questa curiosa attenuante non riconosciuta dai giudici? Gli ermellini in merito all’eutanasia non hanno registrato nella società "un generale apprezzamento positivo" ed anzi ci sono "ampie correnti di pensiero che la contrastano". Dunque lo scenario è il seguente: gli avvocati difensori chiedono di applicare un’attenuante generica data dal fatto che ormai tutti sono a favore di uccidere una persona per non farla più soffrire ed invece ai giudici non pare che attualmente ci sia tutto questo consenso unanime sull’eutanasia. Se ci fosse si potrebbe applicare la succitata attenuante etica.

L’argomento si ripropone in un altro luogo della sentenza. Sempre i legali dell’imputato affermano che quest’ultimo avrebbe ucciso la moglie anche per evitare che, una volta che lui fosse morto, il peso della cura della moglie finisse sulle spalle dei congiunti dato che, a loro dire, non ci sarebbero strutture pubbliche idonee a gestire pazienti in quello stato. E dunque tenuto conto di questa particolare motivazione che ha accompagnato il gesto delittuoso sarebbe opportuno mitigare la pena. I magistrati su questo punto particolare così hanno ribattuto: "Escludere che la consapevolezza della carenza di pubbliche strutture assistenziali idonee a coadiuvare la famiglia nell'assistenza di congiunti gravemente malati, e senza possibilità di guarigione, commista alla preoccupazione di gravare sulla vita di altri congiunti, pure se moralmente e giuridicamente obbligati verso la persona malata, possa generare, secondo la coscienza etica prevalente nella collettività, la spinta volta a sopprimere la vita dell'infermo quale motivo di particolare valore morale e sociale". Anche in questo caso i giudici ci stanno dicendo che se la collettività ritenesse giusto ammazzare un paziente grave quando non c’è nessuno che sia in grado di prendersene cura, allora si potrebbe applicare un’altra attenuante etica.

Un paio di riflessioni. La prima: le sentenze non devono essere democratiche nel senso che il sentito comune non deve entrare nel giudizio penale. Se tutti ritenessero giusto ammazzare una persona di colore, gli omicidi a sfondo razziale dovrebbero ricevere pene più lievi rispetto agli omicidi di persona di etnia caucasica? E che dire dell’uccisione della suocera? E dell’evasione fiscale ritenuta da molti questione bagatellare? Se il criterio sociologico della Cassazione dovesse prevalere nelle aule di tribunale, ogni verdetto dovrebbe essere preceduto da un’accurata indagine demoscopica per sapere cosa pensa il sig. Rossi di quel capo di imputazione. Crediamo che gli ermellini abbiano frainteso il senso dell’espressione “Nel nome del popolo italiano”.

Seconda riflessione. A dar retta ai giudici di Roma il pensionato è solo stato sfortunato o poco accorto. Avesse compiuto quello stesso delitto fra qualche anno, non sarebbe stato punito con sette anni di galera dato che la percezione sociale in merito agli omicidi eutanasici sarà sempre più benevola in futuro. Bastava pazientare ancora un poco, era solo questione di tempo. Già ora con l’attuale legge sulle Dat si potrebbe trovare qualche pertugio in più per “risolvere” il problema che affliggeva il pensionato di Firenze.