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GUERRA INFINITA

Siria, perché la Russia si ritira

L'annuncio del ritiro delle forze russe dalla Siria è giunto come una sorpresa alle orecchie di molti, ma fino a un certo punto. Era chiaro sin da subito, infatti, che gli obiettivi dell'intervento mediorientale di Putin fossero limitati e strettamente collegati a risultati dei negoziati. Ecco quali sono le ragioni che hanno spinto Mosca a dichiarare che la "missione è compiuta".

Esteri 16_03_2016
Manifestazione pro-russa in Siria

Che sia stato un colpo di teatro per il momento scelto e le modalità dell'annuncio non ci sono dubbi. Ma la mossa con cui l'altra sera Vladimir Putin ha annunciato l'inizio del ritiro delle truppe russe dalla Siria in realtà è molto meno sorprendente di quanto sembri. Lo scrivevamo già qualche settimana fa: l'intervento militare di Mosca e il tavolo negoziale non sono mai stati due discorsi tra loro separati. E non lo sono neppure oggi, al netto della retorica che accompagna il rientro dei caccia, accolti da vincitori alla base russa di Voronezh.

Che cosa significa «ritiro» per Mosca? La mossa è molto più politica che militare: i russi restano comunque nella base navale di Tartus e in quella area di Hmeymim, entrambe difese da un proprio contingente di truppe. Questo significa che Putin mantiene la possibilità di ricominciare in ogni momento i raid aerei, in caso di necessità (e non è escluso che lo faccia molto presto se davvero i qaedisti di al Nusra dovessero sul serio lanciare una nuova offensiva da Idlib, come hanno già bellicosamente annunciato). Ma il segnale di Mosca è lo stesso quanto mai chiaro: la Russia non ha alcuna intenzione di andare oltre i risultati attualmente raggiunti. Dunque nessuna battaglia casa per casa dentro Aleppo e - soprattutto - nessun sostegno aereo russo a un'offensiva dell'esercito siriano per la riconquista di Raqqa, la capitale dello Stato Islamico.

Perché - allora - Putin parla di «missione compiuta»? Perché l'obiettivo russo è sempre stato realisticamente limitato: difendere la presenza di un governo amico in quella che a Mosca viene considerata la «Siria utile», cioè la fascia costiera che ha il suo cuore in Latakia e l'asse più interno che collega tra loro Damasco ed Aleppo, le due maggiori città del Paese. Era stata la constatazione che persino in queste roccaforti le posizioni dell'esercito siriano si facevano sempre più precarie a spingere i russi all'intervento diretto. E da questo punto di vista i loro obiettivi li hanno raggiunti: l'esercito siriano (abbondantemente sostenuto da milizie sciite libanesi, iraniane e irachene) ha riconquistato il controllo di ampie zone della regione, ad Aleppo - tuttora divisa in due - i rapporti di forza si sono invertiti, al nord le linee di rifornimento delle forze ribelli con la Turchia sono state interrotte. In queste condizioni il governo di Damasco non è più a rischio. A questo punto, però, gli interessi di Putin e quelli di Bashar al Assad divergono in maniera sempre più evidente.

Ecco allora il segnale politico lanciato da Mosca: al governo di Damasco - che già due settimane fa ha dovuto ingoiare un cessate il fuoco nel momento in cui sul campo di battaglia stava ottenendo i risultati più sostanziosi - la Russia ora dice che è tempo di cercare l'accordo politico con i ribelli. Putin non ha affatto gradito le elezioni parlamentari fissate dal governo siriano per il 13 aprile, in aperta contraddizione con la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu su una possibile soluzione negoziata del conflitto. Con il ritiro dei caccia presenta il conto a Bashar al Assad. Perché Mosca oggi non guarda solo alla Siria, ma agli equilibri più generali del Medio Oriente, in cui la Russia è tornata a giocare a tutto campo. E anche per questo le possibilità di un'intesa a Ginevra se le vuole giocare fino in fondo.

Non è un caso che proprio ieri sera l'Alto Comitato per i negoziati - la rappresentanza del fronte anti-Assad, apertamente sponsorizzata dall'Arabia Saudita - nell'incontro con il mediatore dell'Onu Staffan de Mistura abbia accettato di passare dalla formula degli incontri separati alla trattativa diretta con la delegazione di Damasco. Non vuol dire ovviamente che l'accordo sia dietro l'angolo, ma è certamente un passo importante per consolidare quel cessate il fuoco che da più di due settimane ormai sta permettendo ad ampie zone della Siria di tornare a respirare.

Il ritiro dei caccia è però un segnale politico anche a Washington e a Riyad: senza il sostegno aereo di Mosca è impensabile che l'esercito siriano arrivi a Raqqa. Ma questo significa passare la palla al campo di Obama: se le forze sunnite alleate di Washington vogliono davvero avere un ruolo nel futuro della Siria adesso devono essere loro a prendere l'iniziativa per togliere di mezzo l'Isis dalle province orientali. Ed è più che probabile che nei contatti tra le diplomazie russa e americana avvenuti in queste settimane se ne sia abbondantemente parlato. 

Siamo ancora all'inizio nel cammino per portare la Siria fuori dalla guerra. E non è ancora detto che la strada intrapresa sia irreversibile. Eppure oggi, dopo cinque anni di inferno, per la popolazione stremata di questo Paese una piccola speranza c'è. Ieri il vicario apostolico di Aleppo Georges Abou Khazen raccontava ad AsiaNews che nella città «è tornata l’elettricità. E dopo due mesi è tornata anche l’acqua, i rifornimenti arrivano con regolarità e sono disponibili anche nelle regioni a lungo sotto assedio. Il clima è più disteso - aggiungeva - e un miglioramento già si vede. Anche la gente comincia a stare meglio, non vive più nella paura e non vuole tornare al periodo dei combattimenti più sanguinosi». Adesso tocca al tavolo di Ginevra dare loro le risposte che attendono.