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MEDIO ORIENTE

Siria, la piazza preme e al-Asad gioca sporco

Morti a Damasco. Il regime non cede, al massimo alterna bastone e carota. Come sempre. Buggerando tutti
e coccolando sornione il terrorismo.

Attualità 31_03_2011
Soldati siriani

Scontri continui e morti per le strade anche in Siria, come da tempo in diversi angoli del mondo arabo. Da due settimane abbondanti il regime siriano sta vivendo la più grave crisi della sua storia a far data dal febbraio 1982, allorché Damasco schiacciò nel sangue la rivolta dei Fratelli Musulmani. Ma il presidente Bashar al-Asad - che ha scoperto un giochino antico almeno quanto la Rivoluzione Francese, cioè imputare demagogicamente a “complotti stranieri” il malcontento delle folle e a “regie esterne” i disordini delle strade - sembra perfettamente in grado di tenere testa alla “piazza”, e ciò indiscutibilmente grazie al famigerato apparato repressivo di cui da sempre gode il regime.

Del resto è proprio questo che l’opposizione domanda: l’abrogazione dello stato di emergenza in vigore nel Paese da quasi mezzo secolo, ovvero la legge marziale che sospende sine die la maggior parte delle garanzie costituzionali e ingigantisce i poteri del presidente, ufficialmente - a suo tempo, ma poi per sempre - motivata dallo stato di guerra con Israele e dalla minaccia del terrorismo.

Dopo avere a lungo ignorato, e pure illuso, le richieste dei manifestati, oggi Bashar ha affermato di avere istituito una commissione che, sotto la propria direzione, studierà l’abolizione di quella legge, scritta nel dicembre del 1962. Mentre qualcuno però osserva che per trasformare la faccenda in una mera quanto colossale operazione propagandistica al governo siriano bastano le “regole d’ingaggio” della sua polizia, qualche elemento di quadro circa lo stato di emergenza che nel Paese vige dal 1963 vale la pena di essere richiamato.

Ottenuta l’indipendenza che il 1° gennaio 1946 mise fine al mandato francese, la Siria conobbe un lungo periodo di instabilità politica contrassegnato da numerosi fra cambi di governo e colpi di Stato (nonché dall’effimera unione politica con l’Egitto nasseriano, e più tardi anche lo Yemen del Nord, nella Repubblica Araba Unita, dal 1° febbraio 1958 al 28 settembre 1961) fino a che l’8 marzo 1963 l’ennesimo golpe portò al potere il partito Ba‘th, dapprima schierato su posizioni panarabe ma poi, dopo il nuovo colpo di Stato del 23 febbraio 1966 guidato dal generale Salah Jadid (1926?-1993), filosovietico.

Gli al-Asad sono quindi giunti al potere nel 1970, grazie a un ennesimo colpo di Stato, il secondo interno al Ba‘th, che il 13 novembre intronizzò Hafiz (1930-2000), a cui il 17 luglio 2000 è succeduto il figlio Bashar, nato nel 1965. Insomma, lo stato di “emergenza permanente” che comprime e frustra la Siria è più antico e longevo del potere degli stessi Asad, la “dinastia” che con scettro di ferro e nessuna mezza misura governa il Paese “da sempre”.

Il potere degli al-Asad coincide del resto con quello del partito Ba‘th, un partito che a sua volta esaurisce l’ordinamento stesso dello Stato siriano, il quale, anche per questo motivo, è tutt’uno con le leggi repressive dello stato di “emergenza permanente”. Tanto da spingere a chiedersi su come possa eventualmente reggersi l’intero edificio siriano in mancanza anche di uno solo di questi elementi. La Costituzione del Paese mediorientale, infatti, adottata il 13 marzo 1973, affida al Ba‘th il ruolo supremo di guida della società e dello Stato, e fa coincidere le tre cariche di presidente della repubblica, segretario generale del partito e capo del Fronte Progressista Nazionale, vale a dire l’alleanza dei dieci parti legali strettamente controllata, ovviamente, dal Ba'th.

Quanto al Ba'th - o meglio, ufficialmente, al Partito Ba‘th Arabo Socialista -, ne va certamente ricordata la natura socialista e assieme nazionalista, laica e “terzista”, che nel tempo, e a seconda dei leader e delle branche - oltre a quella siriana, ve n’è una irachena e una giordana -, si è fatta a volte più arabista altre più filosovietica, ma comunque sempre nella sostanza ideologica identica al partito che con Saddan Hussein (1937-2006) ha governato con non meno “piglio” l’Iraq.

A complicare il quadro, non va infine scordato che gli al-Asad, i quali dal 1970 sono appunto tutt’uno con il Ba'th damasceno, con lo Stato siriano e con la legge marziale che lo ingessa, appartengono alla minoranza “iper-sciita” degli alauiti, considerati eterodossi dal resto del mondo sciita (cosa che però non impedisce l’accondiscendenza iraniana nei loro confronti) e invisi alla maggioranza dei siriani che è sunnita. La Siria dell’ultimo quarantennio è insomma una “repubblica ereditaria” modellata a propria immagine e somiglianza da un clan di potere che è espressione di una minoranza religiosa “eretica” portatrice di una ideologia tecnicamente “nazionalsocialista” e maestra in quell’abbinata di doppiopetto e manganello che ne autofonda e autolegittima l’esistenza.

Se infatti al mondo islamico - Iran in testa - la Siria degli al-Asad riesce da sempre a presentarsi come il “vigile di quartiere” anti-israeliano, agli occhi dell’Occidente sa costantemente riciclarsi come il “gendarme” antiterrorista che, a beneficio di tutti, sa contenere le spinte islamiste che pure serpeggiano anche nei suoi paraggi, e talvolta a proporsi persino come figlia di fico araba nelle operazioni di “polizia” regionale. Per questo non da oggi l’Occidente sembra non provare alcun imbarazzo nell’inserire Damasco nei posti alti della classifica degli Stati canaglia, chiudendo al contempo un occhio sulle sue brutalità.

La Siria ci campa di rendita appunto da circa mezzo secolo, sopravvivendo alle burrasche che periodicamente sconvolgono il mondo mediorientale e spesso facendola pure da padrone, come nel caso dell’occupazione del Libano seguita alla distruzione sanguinosa di quel modello unico (nello scenario arabo) e virtuoso di convivenza possibile. Che insomma la Siria, questa Siria, crolli, non fa comodo ad alcuno.

Lo rileva Reva Bhalla, direttrice delle analisi di Stratfor (Strategic Forecasting, Inc.), l’autorevole agenzia di intelligence globale fondata nel 1996 ad Austin, in Texas, dallo scienziato della politica George Friedman. Gli Stati Uniti, per esempio, sono attentissimi nel distinguere tra l’intervento bellico per “ragioni umanitarie” in Libia e la situazione siriana oggi, di fatto affermando - dice l’analista - «che in Siria il livello della repressione non è giunta a un punto tale da obbligare a un intervento militare».

Né Tel Aviv mira alla caduta di Bashar al-Asad, il cui «regime rimane ostile a Israele», ma che pure ha la virtù, «dal punto di vista israeliano», di essere ampiamente prevedibile. «Gli israeliani - spiega Reva Bhalla - non vogliono arrivare a una situazione in cui gli islamisti siriani possano crearsi uno spazio politico capace d’influenzare la politica estera siriana». E infine pure i vicini turchi preferiscono lo status quo, in un momento in cui Ankara sta ottenendo nuova e significativa voce in capitolo negli scenari arabi. La Turchia, infatti, «non vuole vedere scoppiare una ennesima crisi alle proprie frontiere.

Su tutto aleggia però l’inquietante incognita del terrorismo, ben documentata da Michael Rubin, resident scholar all’American Enterprise Institute for Public Policy di Washington, in un approfondito studio pubblicato nel fascicolo dell’inverno 2010 del Middle East Quarterly (edito dal Middle East Forum, fondato nel 1994 a Filadelfia dallo storico Daniel Pipes), intitolato Syria's Path to Islamist Terror.

Damasco lo sponsorizza da sempre, svolge un ruolo di sostengo indispensabile per Hezbollah, ha appoggiato gli insorti iracheni e in tempi recenti ha cercato persino di cooptare frange qaidiste nonostante al-Qa‘ida ne disprezzi l’eresia alauita. In Occidente - osserva Rubin - si ha l’opinione che quello degli al-Asad sia un regime laico ostile allo jihadismo, ma è una illusione ottica legata soprattutto alla clamorosa repressione della branca siriana della Fratellanza Musulmana nata in Egitto, che all’inizio del 1983 ad Hama provocò un numero imprecisato ma enorme di morti (le ricostruzioni, difficilissime, parlano di cifre oscillanti fra le 10 e le 40mila vittime).

La cosa - dice Rubin - conta relativamente, perché - per esempio - Damasco ha persino in qualche modo cercato di asservire a sé alcuni elementi dei Fratelli Musulmani nel momento stesso in cui sulla “piazza” delle proteste sono proprio i Fratelli Musulmani a costituire l’opposizione più organizzata ancorché ora di profilo basso.

In quel mondo - osserva Rubin - le alleanze vanno e vengono, mutano in fretta e sono rigorosamente di convenienza. Gli a-Asad hanno sempre saputo gestire benissimo il gioco su più tavoli, mantenendosi saldi in sella e alternando il bastone alla carota, tanto con l’Occidente quanto con il radicalismo islamico. Per questo, fintanto che vince, il presidente Bashar non smetterà di giocare. Doppio e sporco, visto che gli arbitri lasciano correre.