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UN ESEMPIO STORICO

San Celestino V e il ruolo del papato

Oggi la Chiesa celebra il santo eremita Pietro da Morrone (c. 1209-1296), eletto inaspettatamente al Soglio pontificio in una fase di grave crisi ecclesiale da cardinali che nemmeno ne conoscevano l’aspetto. Nonostante la sua santità personale, si rivelò inadatto al comando e rinunciò al ministero petrino pochi mesi dopo. La sua storia è importante perché può aiutare a riflettere sul ruolo del papato nella Chiesa del III millennio.

Ecclesia 19_05_2019

Chi si occupa di cose cattoliche non può fare a meno di aver notato un fatto ricorrente negli ultimi decenni: il dibattito continuo sulla figura di questo o quel Pontefice. Parliamoci chiaro: questo è un fatto inevitabile nella moderna società in cui siamo tutti sotto l’occhio del riflettore mediatico in ogni momento del giorno e della notte, figuriamoci una figura così importante come quella di un Papa. Ho scritto “figura importante”, non centrale. Nel senso che non possiamo e non dobbiamo ridurre la Chiesa cattolica al Pontefice, in quanto il capo è il Signore. Se perdiamo di vista questo fatto fondamentale, perdiamo di vista tutto.

Eppure, non è sbagliato interrogarsi sul ruolo del papato nella Chiesa del terzo millennio. In questi giorni alcuni studiosi cattolici hanno firmato una lettera rivolta ai Vescovi in cui si è accusato il Pontefice regnante di cadere nell’eresia. Molti hanno condannato questo gesto, altri lo hanno approvato. Se può disturbarci quella che noi percepiamo come una mancanza di rispetto per la figura del Pontefice Romano, dobbiamo pure interrogarci su come la Chiesa protegge se stessa nel caso di Pontefici che non la servono come ci si attenderebbe. E questo può accadere anche a Pontefici santi e per le ragioni più diverse.

Pensiamo a questo guardando alla vita di san Celestino V, al secolo Pietro Angelerio o Pietro da Morrone (ca 1209-1296), passato alla storia per il gesto delle sue dimissioni dal pontificato nel 1294 e che la Chiesa celebra oggi. Proveniva da una famiglia modesta di contadini e sin dalla giovinezza si sentì attratto dalla vita eremitica, una vita che trascorreva fra continue mortificazioni. Molti accorrevano a lui, riconoscendone la santità di vita. Pietro creò una congregazione, quella degli Eremiti di San Damiano, poi detti Celestini. Nella sua congregazione attrasse molti monaci, che intendevano vivere la loro vocazione monastica nel modo austero da lui proposto. Detto questo, sembra proprio strano che alla morte dell’allora Pontefice i cardinali andarono a cercare proprio uno come lui, nascosto al mondo. Ma fu proprio quello che accadde:

Alla morte di Niccolò IV (1292) la Santa Sede rimase vacante per ventisette mesi perché gli undici elettori erano divisi tra i due partiti dei Colonna e degli Orsini, e il re Carlo II di Napoli (+1309), figlio e successore di Carlo D’Angiò, fratello di S. Luigi IX, re di Francia, brigava perché fosse scelto un cardinale di suo gradimento. L’elezione di Pietro da Morrone, la cui storia sembra una leggenda, è la più strana che si ricordi. Nella primavera del 1294 il re di Napoli si era recato a Perugia e aveva parlamentato con i cardinali radunati in conclave. Di lì era passato a Sulmona ove concesse dei privilegi ai seguaci del Morrone il quale, poco dopo, scrisse una lettera al cardinale Latino in cui minacciava terribili castighi da parte di Dio se, entro quattro mesi, il sacro Collegio non avesse eletto il papa. Tutti avevano sentito parlare dell’eremita come di un taumaturgo, ma nessuno lo conosceva di vista. Convinti che fosse la persona più adatta a governare la Chiesa, su proposta del cardinal Latino gli diedero il voto. Una commissione di prelati e di notai fu mandata sulle montagne della Maiella per chiedere al Morrone se voleva accettare. I legati trovarono in una spelonca un vecchio di oltre ottant’anni, pallido, emaciato dai digiuni, vestito di ruvido panno e calzato di pelli d’asino. Gli comunicarono l’elezione al papato, ma egli l’accettò soltanto perché pressato dai confratelli. La notizia dello straordinario avvenimento giunse alla corte di Carlo II, che si precipitò a Sulmona nell’intento di rendere l’eletto docile strumento dei suoi interessi. Contrariamente al parere dei cardinali, che lo invitarono a Perugia per sottrarlo alle suggestioni dell’Angioino, egli decise di fermarsi un po’ di tempo all’Aquila ove, sull’esempio di Cristo, volle entrare seduto su di un asino, scortato da Carlo II e da suo figlio, che sorreggevano le briglie (Guido Pettinati, santiebeati.it).

La persona più inaspettata, di cui i cardinali non conoscevano neanche l’aspetto fisico, venne dunque scelta come Pontefice. Qualcosa che non andava come dovuto c’era, in quanto Celestino, malgrado la sua personale santità e integrità, non era forse pronto per un ruolo impegnativo come quello di un Pontefice, essendo digiuno, oltre che di latino, anche di nozioni amministrative e canoniche. Sembra inoltre che favorì molto la sua congregazione religiosa. Insomma, ci si rese conto che Celestino non era in grado di assolvere il suo ruolo e se ne rese conto anche lui, che come detto era uomo buono e di grande fede:

Colpito dal disordine che s’infiltrava nella Chiesa a motivo della sua incapacità amministrativa, Celestino V si rese conto di non essere all’altezza del suo compito, motivo per cui si sentiva gemere, in preda ai rimorsi: “Dio mio, mentre regno sulle anime, ecco che perdo la mia”. Consultò allora esperti canonisti, tra cui Benedetto Gaetani, e tutti gli risposero che il papa poteva abdicare per sufficienti motivi. Appena i napoletani ebbero sentore che un papa così buono e così facile a lasciarsi ingannare stava per abbandonarli, invasero Castel Nuovo. Celestino V riuscì a calmarli a stento con vaghe promesse e l’autorizzazione di fare preghiere e processioni per chiedere a Dio più luce. Dopo aver preparato con il Gaetani l’atto di rinuncia al potere pontificale e una costituzione che riconosceva al pontefice la facoltà di dimettersi, il giorno di S. Lucia convocò il concistoro, ordinò ai presenti di non interromperlo, poi con voce alta e ferma lesse la sua rinuncia libera e spontanea al potere delle somme chiavi “per causa di umiltà, di perfetta vita e preservazione di coscienza, per debolezza di salute e difetto di scienza, per ricuperare la pace e la consolazione dell’antico vivere”. Fra le lacrime degli astanti depose le insegne papali per rivestirsi del suo vecchio saio. Bene ha scritto E. Casti in occasione del VI centenario dell’incoronazione di Celestino V; “L’abdicazione di lui non fu né una viltà, né un atto di eroismo; fu il semplice compimento dello stretto dovere che incombe a chiunque ha assunto un ufficio sproporzionato alle proprie forze. Il dovere morale di restare al suo posto non poteva obbligare perché in contrasto con l’interesse più imperioso del bene comune”. Il 24 dicembre fu eletto papa il cardinal Gaetani col nome di Bonifacio VIII. Uno dei suoi primi atti fu di annullare tutti i favori accordati dal suo predecessore il quale bramava far ritorno al suo eremo, mentre il papa voleva che lo seguisse in Campania per impedire eventuali scismi o ribellioni (Guido Pettinati, santiebeati.it).

Il cardinale Gaetani (o Caetani) era di tutt’altra tempra e resse la Chiesa con pugno di ferro, per alcuni anche troppo. Il buon Pietro da Morrone infine morì nel 1296 cantando salmi.

Qual è la lezione che possiamo trarre dal brevissimo papato di Celestino V? Che la santità personale non è condizione sufficiente per essere un buon Pontefice. Se un Papa è anche santo è certamente meglio, ma ci sono altre caratteristiche necessarie come la capacità di comando, la conoscenza profonda della dottrina e della Tradizione, la capacità di mediazione fra le diverse anime dell’unica Chiesa senza essere troppo partigiano dell’una o dell’altra, ma sempre salvaguardando la dottrina. Si è parlato moltissimo di Celestino V, naturalmente, al tempo delle dimissioni di Benedetto XVI. Ci sono similitudini, non c’è dubbio. Tutti coloro che hanno avvicinato il cardinale Ratzinger hanno riconosciuto la sua grande semplicità e modestia personale, al contrario di quello che una certa narrativa ostile ha voluto far pensare su di lui. Uomo di grande scienza e di grande fede, ma probabilmente, come del resto da lui stesso riconosciuto, con una non grande attitudine al comando. Detto questo, è stato un bene si sia dimesso visto che oggi la confusione e la divisione sembrano ancora più grandi? È molto difficile dirlo, perché dobbiamo riconoscere che, seppure la leadership fosse carente, il suo magistero è stato per molti aspetti altamente illuminante, contro molte derive della Chiesa moderna.

Giorni fa c’è stato un dibattito sull’emittente Ewtn nella trasmissione The World Over, condotta da Raymond Arroyo. Si discuteva proprio della lettera degli studiosi cattolici che contiene pesanti critiche verso il Pontefice regnante. Ospite era il gesuita Joseph Fessio, fondatore della Casa editrice cattolica americana più importante, la Ignatius Press. Pur manifestando disagio per alcuni aspetti della lettera, si interrogava su come ci si dovrebbe porre nel gestire un Papa che si rivela profondamente inadatto al ruolo che gli è stato affidato. Lui paradossalmente si chiedeva: e se un Papa volesse farsi musulmano? Sappiamo bene che Prima sedes a nemine iudicatur, cioè «la Sede Apostolica Romana non può essere giudicata da nessuno». Ma se ripensiamo a Celestino V, cosa si sarebbe dovuto fare se malgrado la sua incapacità non avesse avuto intenzione di dimettersi? Cosa si dovrebbe fare se un Pontefice (in astratto) manifestamente devia dalla dottrina cattolica che dovrebbe custodire e proteggere?