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GLOBAL SLAVERY INDEX

Quaranta milioni di schiavi. Ecco tutti i governi colpevoli

Gli schiavi sono 40,3 milioni nel mondo. È quanto emerge dal “Global Slavery Index 2018”. Il fenomeno si concentra in due continenti: Africa e Asia. La Corea del Nord è quella con la più alta percentuale di schiavi rispetto alla popolazione: 1 su 10. Dire che certi governi hanno un ruolo e una responsabilità nei confronti delle vittime di schiavitù è un eufemismo. Sono leader e governi che producono schiavitù costringendo ai lavori forzati i loro cittadini. E' un quadro tragico sulla condizione dell’infanzia nel mondo. Perché più di metà dei moderni schiavi sono minori.

Attualità 26_07_2018
Corea del Nord, prima patria della moderna schiavitù

Gli schiavi nel mondo sono 40,3 milioni, con una netta prevalenza femminile: il 71% del totale. È quanto emerge dal “Global Slavery Index 2018”, presentato il 20 luglio all’Onu dalla Australian Walk Free Foundation. Il rapporto, relativo al 2016, documenta l’incidenza in 167 paesi di forme di schiavitù moderna, vale a dire di forme di asservimento imposte con minacce, violenza, coercizione, inganno o abuso di potere: lavoro forzato, servitù per debiti, schiavitù vera e propria e pratiche equiparabili, come ad esempio i matrimoni forzati di cui risultano vittime 15,4 milioni di donne, per lo più sposate quando erano bambine o appena adolescenti.

Aggiungendo chi nel periodo considerato ha vissuto solo per qualche tempo in condizioni di schiavitù o lo era da meno di cinque anni, il numero di schiavi moderni sale a 89 milioni. Il fenomeno si concentra in due continenti: Africa e Asia. Tra gli stati con il maggior numero di schiavi figurano infatti India, Cina, Pakistan, Indonesia, Nigeria e Repubblica democratica del Congo. Inoltre i 10 stati con il tasso di schiavitù più elevato sono: Corea del Nord, Eritrea, Burundi, Repubblica Centrafricana, Afghanistan, Mauritania, Sudan del Sud, Pakistan, Cambogia e Iran.

Il rapporto della Australian Walk Free Foundation, oltre a indicare paese per paese la presenza di casi di schiavitù, sia in termini percentuali sia in valori assoluti, analizza il fenomeno considerando altri due elementi: il modo in cui gli stati affrontano il problema e i fattori che più ne sono responsabili.

Tra gli stati che meno si impegnano a contrastare il fenomeno compaiono alcuni di quelli con tassi elevati di schiavitù; Corea del Nord, Eritrea, Repubblica Centrafricana, Iran, Burundi e Mauritania, a cui si aggiungono Libia, Guinea Equatoriale, Repubblica del Congo e Sudan, rispettivamente al 2°, 6° e 8° posto.  Con l’eccezione degli Stati Uniti, tutti gli stati più determinati a combattere la schiavitù sono europei: per prima l’Olanda, seguita da Usa, Gran Bretagna, Svezia, Belgio, Croazia, Spagna, Norvegia.

Tra i fattori che risultano decisivi nel determinare alti tassi di schiavitù il rapporto ne evidenzia due. Il primo è la presenza di conflitti armati o di situazioni di violenza diffusa. È il caso di sei dei 10 paesi in testa all’indice di schiavitù: Eritrea, Burundi, Repubblica Centrafricana, Afghanistan, Sudan del Sud e Pakistan. Il secondo fattore è il lavoro forzato imposto dai governi. I tre paesi con il tasso di schiavitù più elevato – Corea del Nord, Eritrea e Burundi – devono in gran parte il loro non invidiabile primato a lavori forzati imposti dai rispettivi governi: reclutamento per svolgere lavori agricoli o partecipare alla costruzione di infrastrutture, arruolamento di giovani per attività di natura non militare o servizi civili, carcerati costretti a lavorare contro la loro volontà. In Corea del Nord, ad esempio, una persona su 10 è in stato di schiavitù per lo più perché costretta dal governo.

Dire, come fa il rapporto, che certi governi hanno quindi un ruolo e una responsabilità nei confronti delle vittime di schiavitù è un eufemismo. Sono leader e governi che producono schiavitù costringendo ai lavori forzati i loro cittadini soprattutto quelli dissidenti o, come nel caso della Corea del Nord, praticanti una religione nonostante il divieto di qualsiasi forma di culto anche privata. E li producono scatenando conflitti di potere per il controllo delle istituzioni politiche e per loro tramite delle ricchezze nazionali, come il Sudan del Sud; reprimendo ogni forma di opposizione per decenni, come in Guinea Equatoriale; e come in Repubblica Centrafricana lasciando i loro connazionali dilaniarsi in scontri armati tra etnie e fedi diverse. Producono schiavitù, non ultimo, rifiutando di difendere i diritti dei più deboli, permettendo che ogni anno milioni di ragazzine poco più che bambine siano costrette al matrimonio da famiglie ansiose di riscuotere il prezzo della sposa in cambio delle figlie.

Il “Global Slavery Index 2018” per contro si allinea sulle consuete posizioni di chi colpevolizza sempre e comunque l’Occidente dedicando una sezione alle responsabilità dei consumatori di prodotti fabbricati con forza lavoro schiava: ma non tutti i consumatori, solo quelli dei paesi più industrializzati e ricchi, quelli del G20 che complessivamente importano ogni anno prodotti a rischio di essere frutto di lavoro schiavo per un valore di 354 miliardi di dollari: da un minimo di 739 milioni nel caso dell’Argentina fino ai 144 miliardi degli Stati Uniti, e l’Italia compare al 12° posto con importazioni per circa sette miliardi di dollari.  

In tutto le persone che svolgono lavori forzati sono 24,9 milioni. Il rapporto illustra in quali settori economici sono più presenti: tra gli altri, l’informatica, l’abbigliamento, la pesca e, in agricoltura, le coltivazioni di cacao e di canna da zucchero. La dettagliata, puntuale descrizione del fenomeno non ne rispecchia tuttavia la reale entità, troppo difficile da registrare con precisione – dicono gli autori – poiché è difficile e in certi casi impossibile reperire fonti esaurienti e del tutto affidabili, soprattutto in certe aree geografiche. Ad esempio mancano dati completi sui i Paesi Arabi, un’area che ospita ben 17,6 milioni di lavoratori stranieri, in condizioni notoriamente problematiche, e dove l’istituzione del matrimonio imposto è molto diffusa.

Inoltre, avvertono gli autori, il rapporto non copre tutte le forme di schiavitù moderna. Ad esempio, non include il traffico di organi, i bambini soldato e i matrimoni infantili che non è stato possibile quantificare con sufficiente approssimazione.

Per quanto riguarda il traffico di organi, qualche indicazione si ricava tuttavia dall’Organizzazione mondiale della sanità secondo cui circa il 10% degli oltre 126.000 trapianti registrati nel 2015 sono stati eseguiti con organi acquistati al mercato nero. Quanto all’arruolamento forzato di minori, l’unica certezza è che si concentra in Africa, Asia e America Latina dove nel 2016 sono stati denunciati almeno 4.000 casi di minori arruolati da forze governative e più di 11.500 arruolati da gruppi armati.

Schiavi dalla nascita, ridotti in schiavitù, dati in pegno, in matrimonio, in pagamento di un debito, vittime di tratta... il “Global Slavery Index 2018” è un rapporto sulla schiavitù, ma è anche un rapporto sulla condizione dell’infanzia nel mondo. Perché più di metà dei moderni schiavi sono minori.