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I VOLUMETTI DI VIGANÒ

Promuovere Francesco ignorando Giovanni Paolo e Benedetto

Continuiamo la lettura dei volumetti sulla "Teologia di papa Francesco", affrontando il saggio di don Roberto Repole dedicato all'ecclesiologia. Laddove risulta che il rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali è rovesciato rispetto a quanto codificato dai suoi predecessori.

Ecclesia 09_04_2018
La collana sulla teologia di Francesco

Continuiamo la lettura dei volumetti sulla "Teologia di papa Francesco", editi dalla Libreria Editrice Vaticana, che sono stati al centro del pasticcio che ha coinvolto Benedetto XVI e alla fine provocato le dimissioni di monsignor Dario Edoardo Viganò da prefetto della Segreteria per la Comunicazione. Scopo della collana è l’approfondimento del pensiero teologico dell’attuale Pontefice e la dimostrazione della sua continuità con i predecessori. Dopo aver affrontato i tedeschi Peter Hünermann e Jürgen Werbick, prendiamo ora in esame il lavoro dell'italiano don Roberto Repole, curatore della collana.

Il sogno di una Chiesa evangelica, che si occupa dell’ecclesiologia del Papa, è particolarmente importante perché scritto dal curatore dell’intera collana, don Roberto Repole, torinese, classe 1967, attuale direttore della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, sezione di Torino. Don Repole sceglie una via piuttosto difficile, volendo dimostrare la continuità del Papa con i predecessori, semplicemente ignorando di chiamare in causa tali predecessori. Il Papa più “vecchio” che compare è Giovanni Paolo II, relegato in una noticina, giusto per dire che il suo insegnamento presente in Apostolos Suos, 12 è troppo “all’interno di una cornice ancora tendenzialmente universalistica di Chiesa”.

Questo limite, che risalta, secondo lui, in modo ancora più evidente nella lettera Communionis notio della Congregazione per la Dottrina della Fede (1992), ha fatto sorgere – afferma Repole – “un intenso dibattito teologico che ha visto in Ratzinger e Kasper i due principali protagonisti”. In questa disputa, Francesco ha seguito la posizione di Kasper, sostenitore di una concezione “per cui non si possa intendere l’universalità della Chiesa come realtà previa all’esistenza delle Chiese locali”.

Stranamente si fa finta che Ratzinger sia un teologo che esprime il proprio personale pensiero, dibattendo con un altro teologo (Kasper) e che il Papa attuale avrebbe preferito quest’ultimo. Le cose però sono un tantino diverse: “La Chiesa universale precede le Chiese particolari, e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un criterio di unità e universalità” è un’affermazione che fece Benedetto XVI, in occasione della solennità di Pentecoste del 2010; affermazione da Papa, che riprende in modo sintetico quanto diffusamente spiegato nella già citata Communionis Notio, che egli firma da Prefetto della CDF, con approvazione di un Papa, Giovanni Paolo II. E sempre da Papa pubblicò l’Esortazione Apostolica Ecclesia in Medio Oriente, dove al n. 38 si legge che la Chiesa universale è una realtà preliminare alle Chiese particolari, che nascono nella e dalla Chiesa universale”, precisando che “questa verità riflette fedelmente la dottrina cattolica e particolarmente quella del Concilio Vaticano II. Introduce alla comprensione della dimensione gerarchica della comunione ecclesiale e permette alla diversità ricca e legittima delle Chiese particolari di articolarsi sempre nell’unità”.

È quindi quanto meno curioso che Repole non riporti questi testi, ma riduca il tutto ad una disputa tra teologi, laddove Benedetto XVI intende esporre fedelmente la dottrina cattolica ed anche l’insegnamento del Concilio. Un modo singolare di provare la continuità quello di cancellare qualsiasi testo del Magistero precedente che possa mostrare qualche problema di discontinuità…

Ed infatti Repole presenta una linea diretta tra papa Francesco e il Vaticano II, come se nel frattempo non ci siano stati cinquant’anni di Magistero, che di quel Concilio hanno indicato l’interpretazione. Secondo Repole, l’insegnamento di Francesco segna una “nuova fase di recezione dell’insegnamento ecclesiologico espresso dal Vaticano II”, talmente nuova da non riuscire a trovare agganci se non in Francesco stesso ed in altri nuovi “pontefici”. I più citati: Spadaro, già ben conosciuto; Carlos Maria Galli, decano della Facoltà di teologia di Buenos Aires (della Pontificia Università Cattolica Argentina, il cui rettore è Victor Manuel Fernandez), che con Spadaro ha pubblicato La riforma e le riforme nella Chiesa. Un libro che provocherà la risposta di mons. Agostino Marchetto, che ha dovuto mettere in rilievo come nel volume, gli autori “si situano tutti, o quasi, in una linea unidimensionale di riforma, con sottolineatura della sinodalità-collegialità, senza tener molto presente e sviluppare l’altro polo del fondamentale binomio primato-sinodalità…E proprio per questo, in fondo, monocorde tono del coro e la conseguente unilateralità dell’opera, che è sorta in me l’idea di far udire un’altra voce” (cioè la pubblicazione di Marchetto La riforma e le riforme nella Chiesa. Una risposta).  

Galli - che insieme al gesuita argentino Juan Carlos Scannone, altra firma della collana sulla teologia del Papa - è tra i sostenitori della cosiddetta “teologia del popolo”, è anche autore del volume della collana La Teologia di papa Francesco dedicato alla mariologia. Oltre a Spadaro e Galli, l’altra grande auctoritas a cui rinvia il libro di Repole è Kasper. Niente male. Paolo VI, Giovanni Paolo II assenti; Benedetto XVI ridotto a semplice teologo, ma in compenso abbiamo le tre colonne della continuità: Spadaro, Galli e Kasper.

Quest’ultimo poi viene tirato in ballo anche per un’altra chicca: una cosina non proprio indifferente. Le formule dottrinali, scrive Repoli, “sono sempre definitive e provvisorie al tempo stesso, per usare un’espressione adoperata da Kasper già diversi decenni or sono. Tali formulazioni non possono, perciò, costituire un divieto allo sforzo di riesprimere in altri modi quella medesima verità”. Repole, sulla scorta di Evangelii Gaudium, 41, arriva a sostenere che “senza cogliere il senso profondo e il compito delle formule dottrinali, che non impediscono nuove formulazioni… si potrebbe arrivare alla situazione paradossale di sentire un linguaggio formalmente ortodosso che non indirizza al vero Vangelo di Cristo”. Da qui porte aperte a “nuove formulazioni”, a “nuovi linguaggi di espressione della fede”. Per Repole, anche Ratzinger avvallerebbe quanto sopra.

Ora, su un argomento così delicato ci si sarebbe aspettati almeno qualche precisazione in più; e soprattutto, se si cita qualcuno (in questo caso un certo Ratzinger), si dovrebbe esprimere il suo pensiero integralmente, sebbene limitatamente allo spazio a disposizione. Ratzinger, nella frase riportata in nota da Repole, affermava che la formulazione dogmatica certamente non ha la pretesa di essere l’unica possibile, eppure essa obbliga e permane perché “esprime la fede in comune”; cioè per dirla con il documento L’interpretazione dei dogmi, della Commissione Teologica Internazionale (1990), autorizzato dallo stesso cardinal Ratzinger, la Chiesa, per giungere a delle formulazioni, ha sottoposto i termini utilizzati “a un processo di purificazione e di trasformazione o di rielaborazione. Così, ha creato il linguaggio adatto al proprio messaggio”. Proprio per questo, “come comunità della fede, la Chiesa è una comunità nella parola della confessione. Perciò l’unità nelle parole fondamentali della fede fa anche parte… dell’unità della Chiesa”.

La conseguenza di questo processo è diametralmente opposta a quella cui arriva Repole: “Queste parole fondamentali della fede non sono rivedibili, neppure quando ci si propone di non perdere di vista la realtà che è espressa in esse. Ma ci si deve sforzare di assimilarle sempre più e di procedere oltre nella loro spiegazione, grazie a tutta una gamma di forme diverse di evangelizzazione”.

Tout se tient: la posta in gioco è l’unità della Chiesa; se si rinuncia alla precedenza della Chiesa universale rispetto alle chiese particolari, se la sinodalità e la collegialità diventano ipertrofiche, se le formulazioni dogmatiche non solo possono ma devono cambiare, il risultato è che l’unità della Chiesa si frantuma e non a vantaggio di una maggiore libertà dei cristiani, ma per un loro completo naufragio. Ed infatti a tutti questi punti i predecessori di Bergoglio si sono opposti, riequilibrando la barca di Pietro.

La ripetizione mantrica della sinodalità va di pari passo con l’assolutizzazione della concezione della Chiesa come popolo di Dio. Repole decide piuttosto arbitrariamente che “la categoria più importante con cui il Vaticano II ha parlato della Chiesa è stata quella di popolo di Dio”, categoria che diventa centrale nell’ecclesiologia di papa Francesco. Il minimo che si dovrebbe dire è che insieme alla categoria di popolo di Dio, la Sacra Scrittura, la Tradizione della Chiesa, lo stesso Concilio e il Catechismo ne utilizzano altre (Corpo mistico di Cristo, Sposa di Cristo, Tempio dello Spirito Santo, nuova Gerusalemme…), ciascuna delle quali permette di arricchire la nostra comprensione di ciò che permane un mistero e di evitare fughe unilaterali. La stessa Lumen Gentium, subito dopo il secondo capitolo dedicato alla Chiesa popolo di Dio, parla della costituzione gerarchica della Chiesa.

Ma Repole non sembra tenerne molto conto e tira dritto con affermazioni di sconcertante superficialità; secondo lui, l’identificazione della Chiesa come popolo di Dio impedisce di “separare rigidamente una Ecclesia docens ed una Ecclesia discens. All’interno della Chiesa nessuno può essere, infatti, collocato al di sopra degli altri”. Frase certamente ad effetto, adatta alle campagne elettorali, ma non ad un testo di ecclesiologia. Perché un’affermazione così risulta (volutamente?) anfibologica, prestandosi come minimo ad interpretazioni contrarie alla fede cattolica.

Stessa sorte per il continuo ricorrere all’immagine della “Chiesa in uscita” e alla “conversione pastorale”, provocando uno sbilanciamento molto problematico, che finisce con lo snaturare la Chiesa di Dio e la vita cristiana. E’ l’evangelista Marco a ricordare che Gesù “ne costituì Dodici – che chiamò Apostoli – perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Mc. 3, 14): nessuna conversione pastorale, ma semmai cristocentrica.

E’ significativo che in questa presentazione dell’ecclesiologia di Francesco manchi totalmente il riferimento liturgico ed anche quello sacramentale risulta carente. Più correttamente, il cardinal Ratzinger, nel suo noto intervento del 2000 sull’ecclesiologia di Lumen Gentium, faceva notare alcune cose essenziali, sulle quali, non a caso Repole, dice che “si può eccepire”. Così scriveva Ratzinger: “il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre una ecclesiologia nel senso propriamente teo-logico…All’inizio sta l’adorazione. E quindi Dio. Questo inizio corrisponde alla parola della Regola benedettina: Operi Dei nihil praeponatur... La Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio. L’ecclesiologia ha a che fare per sua natura con la liturgia”. Un altro mondo.

E proprio in questo discorso Ratzinger metteva in guardia da alcuni malintesi: “Ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di «communio». Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda. Nella misura in cui «communio» divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata. Come per il concetto di popolo di Dio così si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l’abbandono del concetto di Dio. L’ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l’una e l’altra”. Come dicono a Roma: stiamo da capo a 12.