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IL LIBRO

Politically correct, "è colpa nostra" come catechismo

Il politically correct è entrato nelle nostre vite con una martellante opera di propaganda. Se i colpevoli dei mali del mondo siamo "noi", dobbiamo espiare i peccati rinunciando alla nostra identità, per dissolverci nel magma di un mondo dalle identità fluide. Intervista a Capozzi, autore del libro "Politicamente corretto. Storia di un'ideologia".

Attualità 25_03_2019

Uno degli strumenti del potere per non vedere le cose come sono è senz'altro il politically correct. C'è un libro di Eugenio Capozzi che si chiama Politicamente corretto. Storia di un'ideologia (Marsilio 2018) che vale veramente la pena leggere. Un libro che ci conduce all'interno dei meccanismi di questa ideologia, che è poi una gnosi, con grande erudizione e capacità di analisi. Eugenio Capozzi è professore ordinario di storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Napoli "Sant'Orsola Benincasa". La Nuova BQ l’ha intervistato. 

Professore, come si è avvicinato al tema del politically correct?
E’ stata la consapevolezza che la rivoluzione culturale prodotta dai movimenti giovanili degli anni Sessanta ha rappresentato forse la cesura più decisiva nella storia politica del Novecento. Se si guarda alle categorie, alla terminologia, ai luoghi comuni, al conformismo di pensiero che connotano attualmente le classi dirigenti delle democrazie industrializzate ci si accorge che tutti questi elementi sono comprensibili soltanto riportandoli a quel grande cambiamento di mezzo secolo fa. Quella somma di censure, delegittimazioni, edulcorazioni linguistiche che oggi chiamiamo "politically correct”.

Come definirebbe il politically correct?
Come un "catechismo civile", una somma di "precetti", di divieti, di censure in cui si compendia la retorica di un'ideologia ben precisa: quello che possiamo chiamare neo-progressismo, ideologia dell'Altro, "utopia diversitaria" (per dirla con Mathieu Bock-Coté). Ossia l'ideologia che condanna in blocco come imperialista e discriminatoria la cultura euro-occidentale, e progetta di cambiare la mentalità dell'umanità per sostituirla con un radicale relativismo culturale ed etico. E’ una retorica che  è diventata il tratto distintivo delle élites politiche, intellettuali, istituzionali, mediatiche, e dell'intrattenimento di massa in Occidente tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo, conquistando un sostanziale monopolio sul linguaggio e sull'etica pubblica, in assenza di "narrazioni" contrapposte dotate di pari rappresentatività. 

Ci fa alcuni esempi di come il politically correct è entrato nelle nostre vite?
Con una martellante opera di propaganda, di estensione e profondità "orwelliane", che pretende di eliminare dai prodotti culturali, dalla dialettica politica, dai comportamenti pubblici e privati, dai luoghi della formazione, ogni termine o concetto che possano essere considerati "discriminatori", "offensivi", espressioni di una concezione gerarchica e di valori "forti", per imporre un'idea di "rispetto" che in effetti coincide con un totale indifferentismo, nel quale la "verità" politica è decisa volta a volta dalle élite che "dettano la linea" alle società. La tesi principale è quella secondo cui il tramonto delle grandi ideologie europee otto-novecentesche apre la strada ad una potente svolta delle classi dirigenti occidentali in senso relativistico-nichilistico, soggettivistico, edonistico, antiumanistico. 

Lei chiama il politically correct una ideologia, una ideologia dell’Altro. Perché?
Nel senso che il nuovo progressismo impostosi con la ribellione dei giovani baby boomers occidentali non rivendica più l'instaurazione della libertà, dell'uguaglianza o della giustizia attraverso misure economiche o provvedimenti politici, ma pretende invece di estirpare le radici del dominio e delle discriminazioni presenti, a suo dire, nella storia culturale occidentale attraverso un radicale processo di modificazione del modo di pensare, dei concetti, del linguaggio. Un obiettivo che in realtà rappresenta un vero e proprio azzeramento, un "parricidio" delle radici culturali occidentali. Se l'uomo occidentale storicamente ha incarnato la violenza, la repressione, l'imperialismo, egli deve essere "rieducato" accogliendo tutti i modelli culturali, tutte le condizioni esistenziali, tutte le componenti minoritarie che ha soggiogato in passato per rinnovarsi e rigenerarsi. L'"altro", ridotto ad un concetto astratto, diventa il salvatore, il redentore di una storia sbagliata, e la radice di una nuova civiltà più gentile, tollerante, in cui i conflitti, una volta eliminato il "peccato originale" del dominio, della gerarchia, del "pensiero forte", dovrebbero sparire. 

Afferma nel suo libro che le ideologie sono eredi di una tendenza gnostica della cultura moderna. Quindi il politically correct è fenomeno di tipo gnostico?
Assolutamente sì. Esso rappresenta appunto l'ultima e più radicale forma di gnosticismo moderno. Il male da eliminare dal mondo non è più la dominazione straniera, la disuguaglianza civile e politica, il capitalismo, o altri fattori economici e politici del genere, ma la storia di una civiltà tout court, con la mentalità che essa ha prodotto. E' quella la radice del male, quindi la salvezza non può che venire dalla "de-occidentalizzazione" del mondo e dello stesso Occidente. Se i colpevoli dei mali del mondo siamo "noi", dobbiamo espiare i nostri peccati rinunciando alla nostra identità, per dissolverci nel grande magma di un mondo dalle identità fluide, precarie, affidate totalmente volta a volta all'autodeterminazione dei soggetti. 

Come ci si libera dal politically correct?
Pensare che il politically correct possa essere abolito per decreto o in un colpo solo sarebbe un'idea altrettanto ideologica di quella coltivata da chi pensa che il progressismo diversitario e la sua retorica rappresentino una realtà inevitabile e salvifica. Quello che noi possiamo fare è mostrare come esso abbia avuto una precisa origine e dunque non sia né eterno né inevitabile. Non a caso, il monolitico dominio della "narrazione" politicalcorrettista ha cominciato a mostrare le prime, serie crepe quando, a partire dalla grande crisi economico-finanziaria del 2008, quelle classi dominanti sono entrate in crisi, e hanno cominciato ad essere sfidate dai "perdenti della globalizzazione", con la crescita dei movimenti sovranisti, identitari, neo-nazionalisti.