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VERSO GLI ALTARI?

Padre Arrupe, il gesuita che non piaceva a tre Papi

È stata ufficialmente aperta la causa di beatificazione di Pedro Arrupe, preposito generale dei gesuiti dal 1965 al 1983 e oggi molto apprezzato in Vaticano. Eppure il prete basco, a causa di una visione mondanizzata della Chiesa, ha avuto rapporti tesi con tre Pontefici: san Paolo VI, il venerabile Giovanni Paolo I e san Giovanni Paolo II.

Ecclesia 18_02_2019

Il 5 febbraio è stata ufficialmente aperta la sessione della causa di beatificazione e di canonizzazione di padre Pedro Arrupe, preposito generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983. L’avvio della fase diocesana rappresenta il primo passo nel procedimento che potrebbe condurre il gesuita basco (intanto proclamato Servo di Dio) verso l’onore degli altari, ferma restando la necessità secondo procedura canonica del riconoscimento di un miracolo per la beatificazione e di un altro per la canonizzazione. Nell’intervento tenuto nell’Aula della Conciliazione del Palazzo Apostolico Lateranense, il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis ha parlato di Arrupe come di un difensore della “fede contro l’ateismo e la miscredenza” la cui “fama di santità [...] si è diffusa e continua a diffondersi ogni giorno più dopo la sua morte”.

Eppure la figura di padre Arrupe, oggi così apprezzata nella gerarchia ecclesiastica romana, non ha sempre goduto della stessa stima in Vaticano. Al contrario, negli anni che lo videro alla guida della Compagnia di Gesù, i rapporti tra il papa “bianco” e quello “nero” non furono mai idilliaci.

Le prime tensioni si crearono durante la parte finale del pontificato di Giovanni Battista Montini a causa di alcuni eccessi “progressisti” serpeggianti nell’Ordine fondato da sant’Ignazio di Loyola e che emersero nella XXXII Congregazione generale. I 237 delegati riuniti nella sede generalizia dall’1 dicembre 1974 al 7 marzo 1975 approvarono l’estensione del quarto voto (l’obbedienza speciale al Papa) a tutti, non solo ai professi. Un cambiamento, quest'ultimo, che Paolo VI aveva già bocciato con una lettera scritta e consegnata a padre Arrupe nel settembre del 1973, ribadendo la sua posizione nell’udienza concessa ai delegati in apertura della Congregazione generale.

La discussione e l’approvazione dell’estensione del quarto voto scontentò non poco papa Montini che il 15 febbraio 1975 scrisse di nuovo al preposito basco, parlando “come supremo garante della formula dell’Istituto e come Pastore universale della Chiesa” e affermando ancora una volta di non consentire alcuna modifica che si ponesse in contraddizione con la Formula Instituti. Una vicenda dolorosa per entrambe i protagonisti che culminò con l’incontro in Vaticano tra il Pontefice romano e il “papa nero” nel dicembre di quello stesso anno. Quel colloquio non fu affatto piacevole per padre Arrupe perché, come raccontato dal suo biografo Pedro Miguel Lamet, una volta trovatosi al cospetto di Paolo VI, si sentì ordinare categoricamente: “Si sieda e scriva quello che monsignor Benelli (sostituto della Segreteria di Stato, nda) le detta”. Padre Arrupe obbedì al Pontefice, lasciando che i documenti votati in Congregazione venissero corretti, e poi uscì dalla stanza in lacrime.

Il polso fermo mostrato pubblicamente da Montini non bastò, però, a far rientrare le inquietudini in una parte dell’Ordine. Nei giorni che precedettero la fumata bianca nel primo conclave del 1978, padre Vincent O’Keefe, vicario del preposito spagnolo, rilasciò un’intervista al settimanale olandese De Tijd in cui auspicava una revisione da parte del nuovo Pontefice della posizione della Chiesa sui contraccettivi, sull’ordinazione delle donne e sul celibato sacerdotale. Le clamorose dichiarazioni del gesuita americano non sfuggirono all’occhio attento di Albino Luciani che, una volta approdato al soglio pontificio, non nascose la sua irritazione e scrisse il famoso messaggio “Ai gesuiti” che avrebbe dovuto leggere ai provinciali (alla presenza di Arrupe) il 30 settembre del 1978, due giorni dopo la sua morte.

Quello di Giovanni Paolo I fu un chiaro richiamo alla disciplina: “Non permettete che le vostre dottrine e pubblicazioni provochino confusione e disorientamento tra i credenti”. Il testo, inoltre, chiamava in causa le indicazioni date dal suo predecessore prima e dopo la discussa XXXII Congregazione. In merito al quarto decreto, con cui i delegati avevano sancito ufficialmente che la promozione della giustizia diventava una delle missioni della Compagnia, l’ultimo Pontefice italiano volle fare delle precisazioni, appellandosi proprio alla Formula Instituti e ricordando come “il fine proprio della Compagnia” sia la “difesa e la propagazione della fede e per il profitto delle anime nella vita e dottrina cristiana”.

Dunque, scrisse ancora papa Luciani, “a questo fine spirituale e soprannaturale va subordinata ogni altra attività, che dovrà essere esercitata in maniera adatta ad un Istituto religioso e sacerdotale”. Tornando sulla questione dell’estensione del quarto voto che tanto aveva preoccupato Paolo VI, il messaggio ammoniva: «Il doveroso contatto apostolico col mondo non significa assimilazione al mondo; anzi, esige quella differenziazione che salvaguarda l’identità dell’apostolo, in modo che veramente sia sale della terra e lievito capace di far fermentare la massa. Siate perciò fedeli alle sagge norme contenute nel vostro Istituto; e siate parimente fedeli alle prescrizioni della Chiesa riguardanti la vita religiosa, il ministero sacerdotale, le celebrazioni liturgiche, dando l’esempio di quella amorosa docilità alla nostra “Santa Madre Chiesa gerarchica”, come scrive sant’Ignazio nelle “Regole per il retto sentire con la Chiesa” – perché essa è la “vera sposa di Cristo, Nostro Signore”».

Nei giorni del secondo conclave del 1978 era nota l’esistenza di questo messaggio ma non il suo contenuto. Il cardinale e segretario di Stato, Jean-Marie Villot, lo sottopose al Sacro Collegio in sede di conclave. Dopo l’elezione, papa Wojtyla trasmise il discorso del suo predecessore al governo dell’Ordine, puntualizzando di condividerlo in toto. Con l’avvio del nuovo pontificato i rapporti tra Santa Sede e Compagnia di Gesù rimasero delicati, come ricordato da Andrea Riccardi. Padre Giuseppe Pittau, uno degli uomini di fiducia del Pontefice nell’Ordine, ha raccontato che Wojtyla si infastidiva quando sentiva pronunciare il nome del gesuita basco. Arrupe chiese più volte di essere ricevuto in udienza, ma fu accontentato solo in due breve occasioni. In una di esse Giovanni Paolo II mostrò pubblicamente di non condividere lo spazio eccessivo che nell’Ordine veniva concesso a spinte  giudicate eccessivamente progressiste e fece accenno alla “crisi di cui soffriva la vita religiosa” all’interno.

L’8 dicembre del 1980 venne resa pubblica una lettera del preposito generale diretta ai provinciali dell’America Latina e che affrontava il delicato tema dell’uso dell’analisi marxista presente nella Teologia della Liberazione. La lettera, come osservato in un libro-intervista da papa Francesco, si esprime “contro l’analisi marxista della realtà, dicendo che non si poteva fare una cosa del genere in nome di Gesù Cristo”. Tuttavia, nel testo si parlava anche di dialogo con i marxisti e si esortava a “non rifiutare collaborazioni concrete ben definite che possono essere richieste dal bene comune”. Apparentemente timidi segnali di apertura, ma suscettibili di compromessi al ribasso, che non entusiasmarono di certo un baluardo contro il comunismo come Wojtyla.

La mancata sintonia tra le due figure emerse anche nel momento più drammatico, quando nell’estate del 1981 padre Arrupe fu colpito da un’embolia della carotide che gli provocò una trombosi cerebrale, costringendolo alla paralisi del corpo e alla perdita dell’uso della parola. Pochi mesi prima, il preposito aveva espresso al Papa l’intenzione di presentare le proprie dimissioni, ricevendo da questi un “no”. Il sopraggiungere della malattia non consentiva, però, il governo della Compagnia. Arrupe, allora, indicò come suo “erede” proprio quel Vincent O’Keefe, a lungo suo assistente generale, che aveva irritato Albino Luciani per via della sua intervista sui divieti ecclesiastici. Una designazione che Giovanni Paolo II, preoccupato per le posizioni ultra-progressiste dell’americano, non volle assecondare. Fu il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato dell’epoca,  a comunicare direttamente a padre Arrupe la decisione del papa di nominare un suo delegato personale per la Compagnia di Gesù, decretando quello che non pochi commentatori hanno definito un commissariamento dell’Ordine. L’incarico di plenipotenziario fu affidato a Paolo Dezza (1901-1999), anziano gesuita - confessore di Montini e Luciani - che non vedeva di buon occhio l’indirizzo di governo messo in atto dal religioso basco fino ad allora.

Come raccontato dall’influente gesuita James Martin - oggi attivissimo nel promuovere l’agenda Lgbt nella Chiesa - nel suo My Life with the Saints, la notizia gettò nella disperazione il superiore malato che non riuscì a trattenere le lacrime. L’intervento di Dezza riuscì a impedire la successione sgradita al Papa: la Congregazione generale riunita nel 1983 per eleggere il 29° preposito generale, indicò il nome di Peter Kolvenbach (1928-2016) e non quello di O’Keefe, al contrario di quanto avrebbe voluto il suo predecessore Arrupe, ‘condannato’ - secondo quanto si legge nella sua biografia scritta dal suo confratello Kevin F. Burke, a “un decennio di inattività forzata e silenzio, una stagione di profonda povertà spirituale e resa”.