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STATI UNITI

Obama, un discorso privo di vita

Il Discorso sullo stato dell'Unione pronunciato il giorno dopo la Marcia per la Vita evidenzia due modi opposti di pensare e di vivere la politica.

Attualità 26_01_2012
39a Marcia per la Vita

 

 

Lunedì 23 gennaio Royce Hood, studente all’Ave Maria School of Law di Naples, in Florida, era a Washington, la capitale federale degli Stati Unti d’America, per la 39a March for Life, la madre di tutte le marce per la vita che benemeritamente si moltiplicano da un capo all’altro del mondo. «Sono nato da genitori non sposati», dice il giovanissimo Hood ai microfoni di Fox News, «e mia madre avrebbe potuto abortirmi. Grazie al cielo non l’ha fatto, altrimenti oggi non sarei stato qui».

Tranne quando la ricorrenza cade nei week-end che svuotano le aule di quel Congresso a cui i marciatori per il diritto alla vita non vogliono fornire facili alibi, la March for Life si svolge sempre nell’anniversario della sentenza che il 22 gennaio 1973 chiuse il caso "Roe vs. Wade". Con quella decisione, infatti, la Corte Suprema statunitense legalizzò l’aborto, cancellando con gravissima disinvoltura diverse provvisioni a favore della vita che vigevano prima in numerosi Stati dell’Unione nordamericana. La sentenza si rivelò poi fondata su un clamoroso falso (una ragazza si era inventata di essere rimasta incinta a seguito di uno stupro mai esistito). Per l’immensità del mistero che ci circonda e che ci comprende tutti, da quel grande male scaturì addirittura un gran bene: Norma McCorvey, la giovane a cui si deve l’aborto americano, si è convertita al cristianesimo, prima protestante poi finalmente nella Chiesa Cattolica, e si è pure trasformata in un’indomita pro-lifer. Ma (calcola il filoabortista Guttmacher Institute, divisione semiautonoma della famigerata Planned Parenthood Federation of America) i 50 milioni circa di aborti statunitensi perpetrati dal 1973 a oggi restano, pesando come un macigno - diceva il titolo di un saggio a difesa della vita pubblicato nel 1983 dal presidente Ronald Reagan (1911-2004) - sulla coscienza del Paese. Per questo anche la politica ha il dovere di occuparsene.

Ora, che a questi milioni di essere umani uccisi nel grembo delle proprie madri si pari innanzi pure un’assurdità come quella in corso a Washington in questi giorni (la notizia è del 18 gennaio) è a dir poco aberrante. In ottemperanza al Wildlife Protection Act del 2010, infatti, le frotte di ratti che stanno infastidendo i poveri manifestanti del movimento di protesta "Occupy D.C." (cioè il Distretto di Columbia, dove sorge Washington) non possono essere passati al pesticida ma debbono essere ridislocati altrove. Forse oltre il fiume Potomac che attraversa la capitale federale, vale a dire in Virginia (e il ministro della Giustizia di quello Stato, Kenneth T. Cuccinelli, freme)...

Fortunatamente, però, non tutti gli amministratori della cosa pubblica sono uguali. Prendiamo per esempio il sempre elegantissimo John Boehner. Repubblicano, cattolico, salito alla presidenza della Camera federale di Washington dopo la vittoria ottenuta il 2 novembre 2012 dal suo partito (e grazie ai "Tea Party"), alla 39a March for Life ha portato quel dovere di responsabilità che chi governa esercita nei confronti dei diritti di libertà di chi è governato. Boehner ha infatti cristallinamente detto che priorità della politica da lui rappresentata in un ruolo chiave dei vertici istituzionali del Paese qual è la Camera federale, a capo della quale egli si trova per netto mandato popolare, è impegnarsi affinché non uno dei dollari pubblici, quelli provenienti dalle tasse dei contribuenti, venga adoperato per sopprimere la vita umana nascente. Dalla politica questo ci si aspetta, giacché questo è il campo in cui la politica agisce.

La presenza di Boehner alla Marcia è stata del resto tanto rilevante quanto strategica. Boehner ha detto che, di per sé, l’aborto non è una questione politica. Strettamente parlando, ha ragione. Ma sull’aborto i discorsi da fare sono sempre più ampi.
Gli Stati Uniti concluderanno il proprio 2012 elettorale il 6 novembre, quando un candidato Repubblicano sfiderà il Democratico Barack Obama per la presidenza. Obama è stato il presidente che negli USA forse più di tutti ha fatto per minare la politica rispettosa dei "princìpi non negoziabili". La Chiesa Cattolica è scesa ripetutamente in campo contro i suoi assalti, e con una risolutezza più unica che rara. Roma ha dettato un’agenda importante. Altre Chiese anche. I Repubblicani che con le primarie cercano oggi l’uomo più adatto a sfidare Obama sono tutti difensori del diritto alla vita, e il loro elettorato, esigentissimo, lo è spesso ancora di più. Due su quattro dei contendenti Repubblicani rimasti in corsa per la nomination presidenziale sono cattolici. Boehner stesso lo è. Ed è Boehner l'uomo che i Repubblicani in cerca anche del voto dei pro-lifer - giacché a Obama il voto i pro-lifer certo non possono darlo - hanno scelto per essere rappresentati alla March for Life di quest’anno particolare.
Il Partito Repubblicano che sfida Obama, cioè, invitato alla Marcia come chiunque altro, non ha schierato fazioni, ma ha invece scelto il simbolo della compattezza: il Repubblicano di più elevato rango istituzionale. Boehner è stato dunque la "voce Repubblicana" alla Marcia: l’autorevole e inequivocabile espressione unitaria e di governo di una formazione politica che sta chiedendo a gran voce all’elettorato di preferirla pour cause.

Se vuole, cioè, la politica seria sa risponde bene alle sollecitazioni importanti.
Sennò fa come ha fatto Obama il giorno seguente la March for Life, pronunciando il suo quarto (e molti sperano ultimo) Discorso sullo stato dell’Unione. Parla d’altro, persino dell’inutile o del banale.
Fred Barnes, direttore esecutivo del settimanale The Weekly Standard, ha definito quello di Obama un «discorso straordinariamente irrilevante». Di questioni decisive come quelle poste per esempio dai marciatori per la vita di Washington - che sono pur sempre una riserva di voti - nemmeno l’ombra. Discorso davvero «anti-climax», rincalza Barnes: noi diremmo "loffio". Promessa "messianica" di abbassare le imposte sui salari a carico del datore di lavoro, ma la cosa è di fatto già una realtà, e per iniziativa della Camera di Boehner a maggioranza Repubblicana. Poi il ritornello dell’energia che non si deve sprecare, vabbè. Due parole due sul suo "cavallo di battaglia" oramai sfiancato, la riforma della Sanità. Quindi la necessità - udite, udite - di una legge immediata che vieti ai parlamentari l’inside trading, una priorità ovviamente insindacabile…

Quando, dopo il fumo, è arrivato il momento dell’arrosto, Obama ha ribadito che occorre che tutti paghino allo stesso modo. Si parla di tasse, che novità. Obama e la sua Amministrazione la chiamano "fairness" ("imparizalità"): più di uno oggi traduce però con "lotta di classe". L’obiettivo di Obama è "più tasse per i ricchi"; ma, oltre che uno slogan, è un falso problema. I notevoli sgravi fiscali permessi dal sistema  impositivo statunitense, aggiunti a una oculata gestione di capitali, investimenti e risparmi, consente a chi intraprende, aumentando produzione, ricchezza del Paese e posti di lavoro, di godere di ottime agevolazioni. Non è un male, è un bene. Il male vero è che non sia così per tutti i cittadini americani. È possibile, insomma, colpevolizzare qualcuno perché sa amministrare bene denari e posti di lavoro? Il sistema americano, per esempio, permette di detrarre dall’imponibile le somme che ognuno decide liberamente di donare in beneficienza. Gli USA sono per questo uno dei Paesi al mondo dove maggiori sono le donazioni caritatevoli, le quali servono così pure a garantire servizi finanziati privatamente ma davvero pubblici.
Chi più è ricco, dunque, più ha possibilità di fare beneficenza. È un male? No, ovvio. Ma allora perché si vocifera insistentemente che Obama pensi a una modifica per restringere i margini di detrazione delle donazioni dagl’imponibili degli americani?

Al Discorso sullo stato dell’Unione ha, come di rito, risposto, anch'egli in diretta tivù, un esponente dell’opposizione. Quest’anno è toccato a Mitch Daniels, governatore dell’Indiana. Di lui si sta sempre più insistentemente parlando per ruoli politici rilevanti. Con una signorilità che da sola vale già metà del buon operato politico, Daniels ha contestato a Obama cose semplici e dirette. Il presidente, dice Daniels, non è certo la causa della grave crisi economica e fiscale che attanaglia il Paese, ma nel 2008 fu eletto perché aveva promesso di sistemare tutto. Le cose vanno però peggio di prima. La disoccupazione americana è alle stelle. Una persona su cinque di quante approdano per la prima volta al mondo del lavoro e circa la metà degli under 30 un lavoro non l’ha affatto. La spesa pubblica intanto è aumentata. Il governo federale spende oggi un dollaro su quattro della sua intera economia e prende a prestito un dollaro su tre che ne spende. Nessun Paese può sopportare né a lungo né a breve termine una situazione così. Lo stato dell’Unione è grave, checché ne dica il presidente, e la medicina Obama non ha funzionato.

Ratti e tasse non possono colmare il vuoto di milioni di vite gettate nel cassonetto e la frustrazione di quella prospettiva che Hilaire Belloc (1870-1953) chamerebbe da "Stato servile" per coloro che sono invece riusciti a nascere. Ha davvero ragione Boehner, il padrone di casa che il 24 notte ha ospitato il presidente Obama nella Camera federale di Washington per il suo non-discorso, lo stesso Boehner della 39a March for Life che a un gruppo di giornalisti, il mattino prima del non-discorso, ha confessato: «La cosa vera è che veniamo da due pianeti diversi. Che parliamo lingue diverse».


 

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