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AVVICENDAMENTO

Obama spiega (involontariamente) perché vince Trump

Nel suo discorso di addio, il presidente uscente Barack Obama ci permette di capire perché ha vinto Donald Trump. Ce lo fa capire con quello che dice e soprattutto con quello che non dice. All’obamismo, faro della sinistra in questi ultimi otto anni, subentrerà un nuovo fenomeno, culturalmente opposto: il trumpismo.

Esteri 12_01_2017
Barack Obama in lacrime nel suo discorso di addio

Nel suo discorso di addio, il presidente uscente Barack Obama ci permette di capire perché ha vinto Donald Trump. Ce lo fa capire con quello che dice e soprattutto con quello che non dice. All’obamismo, faro della sinistra in questi ultimi otto anni, subentrerà un nuovo fenomeno, culturalmente opposto: il trumpismo.

“It’s the economy, stupid” recita la massima di Bill Clinton: è l’economia che, in ultima istanza, determina il successo o l’insuccesso di un progetto politico. Secondo Obama, “L’America – in questi otto anni, sarebbe - uscita da una grande recessione, rilanciato la sua industria automobilistica e vissuto il più lungo periodo di aumento dell’occupazione nella sua storia”. Dunque la politica economica di Obama è un successo? A giudicare dai freddi numeri, non proprio. Negli Stati in cui Trump ha vinto, strappando la maggioranza ai Democratici, il reddito è ancora inferiore rispetto a quello del 2008. Secondo i dati del Census Bureau, la Pennsylvania era indietro dello 0,2%, il Wisconsin del 3%, l'Ohio del 3,3%, il Michigan del 4,4%, la Florida del 6%, la North Carolina del 6,7%. Wisconsin e Michigan fanno parte di quella “rust belt” industriale di cui Obama vanta il rilancio. Detroit, in Michigan, con le sue tre grandi industrie automobilistiche, è la cartina di tornasole del suo insuccesso.

In politica estera e di sicurezza, Obama vanta “l’apertura di un nuovo capitolo con il popolo di Cuba, la chiusura del programma militare nucleare iraniano senza sparare un colpo e l’eliminazione della mente dell’11 settembre”. Ma non è affatto detto che l’Iran abbia rinunciato al programma nucleare. E Cuba, nonostante l’apertura americana con il suo regime comunista, non ha affatto concesso maggiori diritti al suo popolo. Quanto a Bin Laden, chiaramente, si tratta di un successo. Ma dopo Al Qaeda è arrivato l’Isis, perché l’idra a mille teste del jihadismo sunnita non è stata affatto sconfitta. Entriamo nel 2017, dopo un anno di attentati clamorosi, con la sensazione che sia ancor più radicato in Europa e Nord America, pronto a colpire ovunque nelle nostre città.

“Se vi avessi detto (otto anni fa, ndr) che avremmo vinto l’eguaglianza nel matrimonio, assicurato il diritto alla sanità ad altri 20 milioni di nostri cittadini, mi avreste detto che le nostre mire erano troppo ambiziose”. Ma di eguaglianza non si parla, nella realtà. Quelli che Obama vanta di aver introdotto sono diritti positivi. Si riassumono nel concetto della “libertà di” esercitare una facoltà (contrariamente a quello liberale classico di “libertà da” un potere) e proprio per questo si possono implementare solo a spese di qualcun altro. Il matrimonio gay si implementa solo a spese della libertà di religione, che non è mai stata calpestata così tanto come sotto la presidenza Obama. La sanità garantita dallo Stato si paga al prezzo di maggiori tasse (anche se occultate nelle multe per chi non stipula una polizza obbligatoria) e maggiori costi dei premi assicurativi, nonostante Obama insista che il tasso di crescita dei costi sanitari sia “il più basso negli ultimi 50 anni”.

Obama continua a ritenere il riscaldamento globale come un problema prioritario, “senza un’azione decisiva, i nostri bambini non avrebbero il tempo di dibattere sull’esistenza del cambiamento climatico, sarebbero troppo impegnati ad affrontare i suoi effetti: catastrofi ambientali, crisi economiche e ondate di rifugiati climatici in cerca di luoghi sicuri”. Obama dà per scontato che il cambiamento climatico esista e sia causato dall’uomo, dunque possa e debba essere combattuto con politiche energetiche. Ma dimentica volutamente di presentare i termini reali di questa scelta: lotta al global warming o crescita economica. Le due cose non possono coesistere. La crisi economica del 2008-2009 è stata la maggior causa della riduzione delle emissioni nel mondo industrializzato. Nessuna energia rinnovabile su cui ha investito Obama si è dimostrata più produttiva delle fonti convenzionali attualmente usate.

Quanto alle minacce future per la democrazia americana, Obama cita il razzismo, perché “Dopo la mia elezione, si parlava di America post-razziale. Questa visione delle cose, benché carica di buoni auspici, non è mai stata realistica. Poiché la razza è rimasta una forza potente e spesso divisiva nella nostra società”. E però Obama omette volutamente che la crescita della conflittualità razziale è avvenuta proprio sotto la sua presidenza. Ormai, casi come quello delle violenze a Fergusson o dell’attentato contro la polizia a Dallas, sono diventati ricorrenti. E questo è dovuto, soprattutto, alla politicizzazione della questione razziale, caratteristica dei progressisti. Se ogni problema di coesione è imputato al razzismo de bianchi, prima o poi i frutti si raccolgono: la maggioranza degli americani, che è ancora bianca ed europea, alla fine ha voltato le spalle ai Democratici. E ha votato Trump.

Sul trumpismo, che sta subentrando all’obamismo, lo storico conservatore Victor Davis Hanson nell’edizione online della National Review, scrive: “Donald Trump è odiato dai Democratici liberal, perché, fra le altre cose, con tutta probabilità, ribalterà il progetto di Obama. E, ancora peggio (per loro, ndr), troverà il modo di impedirne un futuro ritorno”. In che cosa consiste, allora, il progetto opposto rispetto a quello di Obama? Davis Hanson identifica almeno sei caratteristiche. 

Tradizione. Nonostante il suo comportamento sopra le righe e la sua stessa turbolenta vicenda familiare, Trump è certamente a favore del ritorno sulla scena della morale tradizionale. Non solo cita la Bibbia, ripristina pubblicamente gli auguri di Natale, ma auspica un ritorno alla normalità, alla famiglia come base della società, dopo anni di tentativi di rivoluzionare la società da parte dei progressisti. “Probabilmente Trump è come tanti altri nati nel boom economico e ora entrati nelle loro ultime decadi di vita: si guardano indietro, guardano ai loro genitori e nonni, a come hanno allevato la loro prole” e constatano quanto si sia allontanata quest’ultima generazione e quanto male abbia fatto.

Popolo contro élite. Il trumpismo non è invidia sociale, non è disprezzo per l’élite in sé. Ma per la sua ipocrisia. E’ disprezzo per un Al Gore, miliardario, che invita l’americano della classe media a non usare l’auto. E’ l’industriale che predica la de-industrializzazione, nel nome della lotta al riscaldamento globale. Il trumpismo è lotta contro le élite intellettuali, accademiche e mediatiche e un sano desiderio che l’americano medio possa arricchirsi con il suo lavoro.

Denaro. Il nuovo presidente è il primo in una generazione a vantare la sua ricchezza. Non fa mistero di usare il denaro come parametro per valutare la capacità di una persona. Chi sa fare soldi nel mondo del business è valutato meglio rispetto a chi ha le idee migliori ma non riesce a sfondare. L’imprenditore di successo è superiore al professore di greco. Perché, come sintetizza Davis Hanson (grecista appassionato): “Senza professori di greco, il mondo può ancora avere case e benzina; senza costruttori e trivellatori, nel mondo non potrebbero esistere professori di greco”.

Industrialismo. A questo proposito, il trumpismo esalta l’industria e ha per questo conquistato i cuori e le menti degli operai. Considerata come un settore estinto dai protagonisti della new economy (nata dalla rivoluzione informatica), l’industria viene esaltata dal nuovo presidente come la base di tutto. “Non solo perché le industrie producono il benessere di cui il paese ha bisogno, ma perché potenziano il tipo umano che fa da antidoto a quel che la società sta diventando”. Dunque una società solida contro una “liquida”, per usare un termine caro al defunto sociologo Baumann.

Sciovinismo. Se Barack Obama ha iniziato il suo primo mandato con un tour mondiale in cui ha espresso le scuse per la precedente politica estera americana, Trump ostenta la potenza nazionale. Non chiede scusa a nessuno, ritiene che gli interessi del cittadino americano vengano prima di quelli dello straniero, quelli del nativo prima di quelli dell’immigrato. “Il primo obbligo del governo è far sì che i cittadini stiano bene, al sicuro e con un impiego”

E all’estero? Davis Hanson paragona la politica di Trump a quella del presidente Andrew Jackson (1829-1837), dove per “jacksonismo” si intende: “Avere un grande bastone al Dipartimento della Difesa come garanzia di non doverlo mai usare”. Dunque: potenziare le forze armate, in tutti i loro settori, per intimidire i potenziali nemici e indurli a non attaccare, a non provocare l’America. Ma senza usare l’esercito, all’estero, per ottenere scopi politici.

Come si può vedere, il trumpismo è l’opposto dell’obamismo. Almeno negli intenti, poi dall’opera si giudicherà.