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FERNANDEZ E PAGLIA

No aborto, i vescovi che non esultano e quasi si scusano

I commenti dei vescovi Fernandez e Paglia dopo il no all'aborto in Argentina suonano quasi come una scusa al mondo laicista: “Non siamo tanto felici per i milioni di bambini che non verranno uccisi da una legge omicida, quanto siamo affranti per le donne che abortiranno clandestinamente o che portano avanti gravidanze indesiderate". Discorsi che risentono dell’affumicatura degli orientamenti ideologici pro-aborto. Porre l’accento sul fenomeno dell’aborto clandestino, è proprio il grimaldello usato da tutte le strategie pro-choice per legalizzare l’aborto. 

Ecclesia 14_08_2018
Monsignor Paglia con Marco Pannella

“Non oso uscire a festeggiare per il ‘no’ all’aborto perché credo che né i legislatori, né la società in generale possono dormire sonni tranquilli”. La frase, riferita al recente “No” espresso dal Parlamento argentino alla legalizzazione dell’aborto, non è stata pronunciata da Emma Bonino, bensì da monsignor Victor Manuel Fernandez, nominato dal Papa arcivescovo de la Plata. Il prelato così prosegue: “Non si è ancora discusso su come faremo ad accompagnare le donne incinte che non desiderano un figlio, come aiutare le donne con problemi a non dover arrivare all’estremo dell’aborto, come facilitare le adozioni, come prevenire le gravidanze tra le adolescenti, come favorire una paternità responsabile, come migliorare l’accesso alla sanità da parte delle donne povere (sono molte più quelle che muoiono perché arrivano al parto denutrite o malate piuttosto che quelle che muoiono a causa dell’aborto)”. Come società e come Chiesa, ammette, “abbiamo fatto poco su questi temi, anche se dobbiamo riconoscere che sono cresciuti all’interno nella Chiesa i gruppi di accompagnamento alle donne che abortiscono per aiutarle a recuperare la pace, mentre i preti delle periferie hanno creato luoghi per accompagnare le donne incinte che non desiderano figli”.

L’uscita di mons. Fernandez richiama per toni e contenuti quella di Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, il quale, anche lui commentando l’esito del voto del Senato argentino, ha così dichiarato: «Per combattere la piaga della clandestinità è fondamentale un impegno creativo e pieno di amore». Paglia giudica comunque «un dato positivo il fatto che un numero consistente non solo di credenti ma in questo caso di cittadini si sia opposto alla legalizzazione dell’aborto. Tuttavia di fronte a un tema come questo dell’aborto, si deve moltiplicare la vicinanza alle donne, soprattutto alle donne più povere, alle ragazze che prendono decisioni drammatiche. Il compito della Chiesa è di raddoppiare l’amore, la vicinanza, l’aiuto, perché una decisione abortiva è sempre un dramma. A noi non spetta un compito di natura legislativa, a noi compete un amore per tutti, per far capire anche a chi è contrario che in realtà dobbiamo tutti lavorare per la vita e per il sostegno alle donne e a chi vive situazioni drammatiche, in modo che una eventuale decisione venga sospesa».  

Alcuni punti fermi in merito a queste due dichiarazioni. Bene ha fatto mons. Paglia a rallegrarsi per la bocciatura del progetto di legge argentino che mira alla legalizzazione dell’aborto. Ma, domandiamoci, un presidente della Pontificia Accademia per la Vita poteva e doveva forse reagire in modo differente? Forse che Wladimir Luxuria non poteva che compiacersi quando la legge sulle unioni civili è stata varata? Male invece che mons. Fernandez non abbia esultato.

Seconda riflessione. Il succo delle affermazioni dei due prelati potrebbe essere il seguente: non siamo tanto felici per i milioni di bambini che non verranno uccisi da una legge omicida, quanto siamo affranti per le donne che abortiranno clandestinamente o che portano avanti gravidanze indesiderate. Sono discorsi che risentono molto dell’affumicatura di certi orientamenti ideologici pro-aborto. Gli abortisti infatti non dicono “Quanto è bello l’aborto, legalizziamolo”, bensì “l’aborto è un dramma, legalizziamolo per evitare rischi alla donna” (ma in realtà pensano “Legalizziamolo per diffonderlo il più possibile”). Ora i commenti di Fernandez e Paglia non vertono tanto sul successo ottenuto, bensì puntano il focus sull’aborto clandestino. 

Intendiamoci bene, molti passaggi dei due prelati sono condivisibili, ma è il tema dell’aborto clandestino ad essere fuori posto perché non prioritario in questo contesto e anche rimanendo all’interno di questo tema è il non detto o il detto male che fa problema. Spieghiamoci meglio su entrambi questi due punti iniziando dall’ultimo. Certo che occorre prevenire le cause dell’aborto, ma non eliminare i rischi connessi all’aborto clandestino perché giusto fattore di deterrenza.  Se una persona decide di compiere una rapina non può chiedere di compierla in tutta sicurezza.  Certo che bisogna stare accanto alle donne che vogliono abortire, ma per stornarle dal loro proposito per sempre e non – come ha detto Paglia – solo per sospendere temporaneamente la loro infausta decisione. Certo che occorre essere misericordiosi verso le donne che hanno già abortito, però al pari di tutti quelli che hanno compiuto un delitto, perché tale è l’aborto. Certo che la Chiesa non ha competenza legislativa riferita ad ordinamenti diversi da quello della Santa Sede, ma ha competenza ed autorità nel richiamare le coscienze dei legislatori al rispetto della legge naturale quando questi scrivono una norma o quando votano a favore o contro una legge.

Passiamo al secondo punto. Ingenui come siamo ci saremmo aspettati dai rappresentanti della Chiesa dichiarazioni di ben altro spessore e di più elevati accenti. Appena varata la legge 40, i gruppi pro-choice erano già sulle barricate per eliminare tutti i divieti che castravano la loro voglia di rendere la fecondazione artificiale ancor più liberale. E ci sono riusciti. All’indomani della promulgazione della legge sulle unioni civili, l’on. Cirrinà & co. sui social si erano infiammati di sacro ardore nello spiegare che ben presto anche l’Italia avrebbe avuto i “matrimoni” gay e che anche l’omogenitorialità legale sarebbe diventata un realtà. E ci stanno riuscendo. E noi invece che facciamo? Tutto l’opposto. Ci rattristiamo per l’aborto clandestino. Questo, anche in casa cattolica, non viene inteso come male morale così grave per il bene comune da esigere una risposta sanzionatoria da parte dello Stato, bensì viene equiparato ad una qualsiasi condizione di povertà sociale che ovviamente non merita di essere penalmente condannata, bensì di ricevere attenzione per porvi rimedio. Come esiste l’indigente, il disoccupato, il migrante, il tossicodipendente così esiste la donna che ha abortito, sempre innocente, sempre vittima (lo è invero al pari di tutti coloro che compiono un male morale), mai colpevole. E il bimbo che è stato abortito? Non un fiato dai due prelati.

Ingenuamente speravamo che gli uomini di Chiesa alla notizia sorprendente del No del Senato argentino all’aborto cavalcassero l’onda fomentando nel popolo dei credenti la speranza che le legislazioni abortiste venissero cambiate in meglio in tutto il mondo, auspicassero che grazie a questa decisione in terra argentina iniziasse a diffondersi una nuova coscienza sulla dignità del concepito la quale mettesse in crisi anche quelle normative che hanno legalizzato la fecondazione artificiale e che, a casa nostra, prendesse impulso a livello collettivo una nuova spinta per l’abrogazione della 194. Nulla di tutto questo, bensì solo l’accento sul fenomeno dell’aborto clandestino, proprio il grimaldello usato da tutte le strategie pro-choice per legalizzare l’aborto. Una insistenza così marcata su questo fenomeno che suona quasi come una richiesta di scuse verso il mondo laicista per l’inattesa vittoria in terra argentina la quale può incrinare quel dialogo Chiesa-mondo che ormai assomiglia sempre di più ad un monologo recitato solo dal mondo stesso e che alcuni uomini di Chiesa ripetono pedissequamente a mo’ di eco. E quindi non abbiamo avuto una ripartenza in contropiede per attaccare l’avversario, nemmeno una chiusura in difesa per difendere la propria porta, ma quasi una difesa della porta dell’avversario.