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IL DIBATTITO

Muller e il diritto-dovere di correggere a volte il Papa

Nella Chiesa esiste il diritto, e persino il dovere di correggere “un apostolo”, quando insegna qualche cosa che non è giusto; e sono diritti e doveri che possono (o devono) essere esercitati non solo da “un altro apostolo”, cioè da qualcuno che ha la carica episcopale, ma anche da un inferiore verso un superiore. Così si esprime il card. Gerhard Müller, già prefetto della Congregazione per la Fede, in una riflessione pubblicata dal sito statunitense “First Things” e incentrato sull’autorità papale.

Ecclesia 18_01_2018

Nella Chiesa esiste il diritto, e persino il dovere di correggere “un apostolo”, quando insegna qualche cosa che non è giusto; e sono diritti e doveri che possono (o devono) essere esercitati non solo da “un altro apostolo”, cioè da qualcuno che ha la carica episcopale, ma anche da un inferiore verso un superiore. Così si esprime il card. Gerhard Müller, già prefetto della Congregazione per la Fede, in una riflessione pubblicata dal sito statunitense “First Things” e incentrato sull’autorità papale. “Con quale autorità?” si intitola il breve, ma molto interessante saggio, che parte dalle polemiche sulla “Kulturkampf” scatenata da Bismarck contro i cattolici; ma di cui si possono facilmente percepire le ricadute sull’attualità ecclesiale. A partire dalle controverse indicazioni di “Amoris Laetitia”, continuando con i “Dubia”, ancora rimasti senza una risposta da parte del Pontefice, le petizioni filiali, la “Correctio filialis” e il documento di fedeltà all’insegnamento di sempre della Chiesa in materia di matrimonio e sacramenti. Da quando scrive il porporato tedesco è evidente la legittimità di queste iniziative.

“Bisogna tenere alla mente – scrive Mūller - che le affermazioni dottrinali hanno diversi gradi di autorità. Richiedono diversi gradi di consenso, così come espresso dalle cosiddette ‘note teologiche’. L’accettazione di un insegnamento con ‘fede cattolica e divina’ è richiesto solo per le definizioni dogmatiche. Chiaro è anche il papa o i vescovi non devono mai chiederea nessuno di agire o insegnare contro la legge morale naturale. L’obbedienza del fedele verso i suoi superiori ecclesiastici di conseguenza non è un’obbedienza assoluta, e il superiore non può chiedere obbedienza assoluta, perché sia il superiore che quelli affidati alla sua autorità sono fratelli e sorelle dello stesso Padre, e sono discepoli dello stesso Maestro”.

Ne consegue un grado diverso di responsabilità: “Quindi è più difficile insegnare che apprendere, perché l’insegnamento è associato a una maggiore responsabilità davanti a Dio. L’affermazione ‘dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini’ ha una sua validità anche e specialmente nella Chiesa. Contro il principio di obbedienza assoluta che prevaleva nello Stato militare prussiano, i vescovi tedeschi insistevano davanti a Bismarck: ‘Sicuramente non è la Chiesa cattolica che ha abbracciato il principio immorale e dispotico in base a cui l’ordine di un superiore libera qualcuno incondizionatamente da ogni responsabilità personale’”.

Questo principio vale anche all’interno della Chiesa, e non solamente nei confronti dell’autorità civile o statuale: “Quando opinioni private o limitazioni morali e spirituali entrano nell’esercizio dell’autorità ecclesiastica, allora si richiedono critiche sobrie e obiettive così come la correzione personale, specialmente da parte di fratelli nell’ufficio episcopale. Tommaso d’Aquino non sarà sospettato di relativizzare il Primato Petrino e la virtù dell’obbedienza. Il modo in cui interpreta l’incidente di Antiochia è quanto mai illuminante, incidente che culmina nella pubblica correzione di Pietro da parte di Paolo”.

Il cardinale tira le conseguenze dell’avvenimento, e dello scontro, famoso fra  Pietro e Paolo: “Secondo l’aquinate l’evento ci insegna che in certe circostanze un apostolo può avere il diritto e persino il dovere di correggere un altro apostolo in maniera fraterna, e che persino un inferiore può avere il diritto e il dovere di criticare il superiore”.

Anche questo diritto-dovere hanno dei limiti precisi, come insegna il Concilio vaticano II citato da Müller: “Questo non significa che si può ridurre il magistero a un’opinione privata, così da dispensare qualcuno dal potere obbligante dell’insegnamento autentico e definito della Chiesa. Significa solo che uno deve capire bene il significato preciso dell’autorità della Chiesa in generale e il ruolo del ministero di Pietro in particolare. E questo è particolarmente vero quando il conflitto non nasce dall’insegnamento del papa ei l punto di vista personale di qualcuno, ma fra l’insegnamento del papa e l’insegnamento dei papi precedenti che sia in accordo con la tradizione ininterrotta della Chiesa”. E certamente l’esempio più recente e attuale di questo contrasto lo si può trovare fra le interpretazioni aperturiste di Amoris Laetitia e il magistero dei papi moderni, ultimi dei quali Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.