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IRAQ

Mosul è stata liberata. Ma a che prezzo

Fine di un incubo durato tre anni. Mosul è stata liberata. Ieri il premier iracheno Al Abadi, per ufficializzare la vittoria, si è recato personalmente nella città per congratularsi con le truppe. Divenuto un simbolo del trionfo dell'Isis, ora la città può tornare a vivere. Ma come? E quanto è costata la sua liberazione?

Esteri 10_07_2017
Al Abadi festeggia la presa di Mosul

Fine di un incubo durato tre anni. Mosul è stata liberata. Nella giornata di sabato sono state smantellate le ultime postazioni dell’Isis. Ieri il premier iracheno Al Abadi, per ufficializzare la vittoria, si è recato personalmente nella città distrutta per congratularsi con le truppe. Sono stati tre anni di occupazione, nove mesi e mezzo di battaglia per liberarla.

Mosul, nel 2014, era diventato il simbolo del fallimento dello Stato iracheno. Con una battaglia di appena sei giorni, dal 4 al 10 giugno 2014, un’offensiva fatta di attentati con autobomba, azioni suicide, rapide incursioni di colonne di pick up armati, 1500 jihadisti dell’Isis avevano occupato la città, presidiata fino a quel momento da 50mila soldati regolari iracheni. Almeno sulla carta, quei 1500 uomini pronti a tutto avevano annientato un esercito di 15 volte superiore. In realtà, non c’è neppure stata battaglia. L’esercito iracheno si era squagliato come neve al sole. Chi era sunnita non si identificò con la causa di un governo sciita, allora retto dal premier Al Maliki. Chi era sciita non voleva battersi per una città sunnita e cristiana. Mosul cadde perché non aveva un esercito che la voleva difendere. Divenne un simbolo della vittoria dell’Isis. Fu proprio dalla moschea di Al Nouri di Mosul che Al Baghdadi si auto-proclamò Califfo, dando origine allo Stato Islamico.

Mosul divenne, purtroppo, il simbolo della persecuzione dei cristiani, la minoranza più consistente. Le loro case vennero marcate con la lettera N di Nazareno per indicare che erano di proprietà di un cristiano. Gli abitanti di fede ortodossa e cattolica ebbero solo due scelte: la morte o la fuga. Oppure una sottomissione da dhimmi, con conseguente pagamento della tassa ai musulmani, un’opzione più illusoria che altro vista la violenza dei persecutori. In massa scelsero la fuga, subendo durante il percorso predazioni e angherie da parte degli inseguitori jihadisti. Le colonne di civili in fuga, nel deserto, divennero un simbolo della tragedia irachena, del nuovo genocidio in corso. Sono le scene che seguirono alla caduta di Mosul e alla conquista da parte dell’Isis di tutta la piana di Ninive.

Tre anni dopo cosa resta di quell’esperienza? Sono finite le regole rigidissime imposte dai jihadisti, valide anche per i musulmani sunniti, per cui anche solo ascoltare musica, fumare una sigaretta al balcone di casa propria, usare matite colorate, o (per una donna) uscire con un velo non sufficientemente coprente, poteva comportare pene corporali, carcere o anche la morte. I cristiani stanno ricominciando a tornare nelle loro case, a Mosul e nella piana di Ninive ed è ancora tutto da vedere come potranno ricostruirsi una vita con i loro vecchi vicini, dopo gli espropri che hanno subito e la persecuzione sostenuta anche da molti cittadini sunniti. Secondo quanto scrive su Asia News il patriarca caldeo Raphael Sako, con grande ottimismo: “È un dato di fatto significativo che i cristiani della piana di Ninive comprendano che vi sono linee comuni con i loro vicini e che esse sono indispensabili; su queste basi va fondato lo sviluppo futuro della regione e vanno fissati i progressi da conseguire. Hanno condiviso assieme gioie e dolori, costumi e tradizioni attraverso generazioni intere in qualità di vicini e amici. Facendo riferimento alla interazione culturale e morale, in special modo in queste circostanze così catastrofiche, vorrei presentarvi alcuni esempi attuali e vivi. La scorsa settimana ho visitato due famiglie che sono rientrate nella cittadina di Karamles. Una di queste famiglie è cristiana, l’altra è musulmana-Shabak. Le due famiglie parlano caldeo (aramaico) e hanno le stesse tradizioni, i medesimi costumi e vivono fra loro in condizione di buon vicinato”.

Non è facile, però, come dimostra il gran numero di vendette che si stanno consumando in queste settimane, ai danni dei cittadini sunniti accusati di collaborazionismo con l’Isis. Con un metodo che ricorda, purtroppo, quello dei jihadisti, le milizie filo-governative danno degli ultimatum ai presunti collaborazionisti: o lasciano la loro casa o saranno passati per le armi. I governativi stanno cercando di porre un argine all’ondata di vendette, ma a battaglia appena conclusa è difficile stabilire un controllo pieno, considerando che le milizie para-militari costituiscono numericamente più di un quinto delle forze di Baghdad. “Si invitano gli iracheni a ragionare in modo obbiettivo, ad agire con razionalità, evitando le vendette, rileggendo l’attuale e preoccupante situazione per evitare di essere trascinati verso ulteriori spargimenti di sangue e distruzione. L’unione è la loro salvezza”, esortava Raphael Sako all’inizio della battaglia di Mosul. I cristiani sono disarmati, a parte pochissime eccezioni, non hanno una loro milizia armata. Gli sciiti, invece, dominano la scena. Compiono arresti e torture sui sunniti, su chiunque sia sospetto di collaborazione con il nemico in fuga.

Se questo è un aspetto inquietante di questa bella giornata di liberazione, non meno preoccupanti sono le statistiche che conosciamo di questa importante battaglia. Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’Isis conquistò Mosul con 1500 uomini in appena sei giorni, subendo perdite irrilevanti. La battaglia per la sua riconquista iniziò il 16 ottobre del 2016 ed è finita solo ieri. Sono nove mesi di battaglia, costati agli iracheni più di 800 morti e 4600 feriti (secondo fonti Usa). Le forze irachene consistevano in 60mila soldati regolari, 14mila miliziani irregolari filo-governativi, con l’appoggio di un esercito di 40mila peshmerga curdi che avanzavano da Nord e il supporto aereo e delle forze speciali della Coalizione. Dall’altra parte, l’Isis aveva appena 6mila jihadisti a presidiare la città. La prudenza massima con cui sono state condotte le operazioni era motivata soprattutto dall’uso spregiudicato di scudi umani da parte dell’Isis. Ma alla fine la propaganda jihadista può vantare di aver tenuto in scacco un esercito di oltre 100mila uomini, per 9 mesi, con appena 6mila jihadisti. Potrebbe essere il miglior spot mai prodotto dalla propaganda dello Stato Islamico.