Medea: la follia di una tradita che tradì per passione
Medea rappresenta l’archetipo della donna sedotta e abbandonata nella letteratura occidentale. Lei che per scappare con il Greco Giasone si consegnò allo straniero, uccidendendo il fratello e il padre, una volta abbandonata, arriverà ad uccidere l'amate del marito, il padre di lei e persino i suoi due figli.
Medea rappresenta l’archetipo della donna sedotta e abbandonata nella letteratura occidentale. Giunto nella Colchide con gli argonauti per impadronirsi del Vello d’oro, Giasone riesce nell’impresa solo grazie all’aiuto di Medea, figlia del re della regione e maga dal grande potere. La donna s’innamora del greco, scappa con lui ed arriva a fare a pezzi il fratello Apsirto e a spargerne i pezzi in mare, pur di ostacolare e frenare l’inseguimento del padre. Giasone approda così a Jolco con il Vello d’oro insieme agli argonauti e a Medea e lo consegna allo zio Pelia che, però, si rifiuta di concedergli il trono, come promesso.
Medea allora aiuta ancora l’amato, dona una pozione ai figli di Pelia con il pretesto di far ringiovanire il padre, ma, in realtà, con lo scopo di ucciderlo tra atroci sofferenze. Morto Pelia, Giasone e Medea sono banditi dalla città e si rifugiano a Corinto dove si sposano e hanno due figli. Passati alcuni anni, il re di Corinto Creonte offre la figlia in sposa a Giasone, che accetta per divenire il successore al trono. Medea mette allora in atto la sua vendetta. Dona alla futura sposa un mantello intriso di veleno a causa del quale muoiono sia la donna che il padre di lei. Infine, Medea uccide i due figli.
Da sempre la figura ha affascinato divenendo uno dei personaggi femminili più celebri. Il tragediografo Euripide (485 a. C. – 409 a. C.) non la rappresenta più solo come una maga dalle azioni disumane, ma anche come un’eroina cosciente del proprio proposito omicida e bramosa di attuarlo con lucida consapevolezza. Lo scrittore ellenistico Apollonio Rodio (295 a. C.- 215 a. C.) e l’autore romano Valerio Flacco (45 d. C.- 90 d. C.) si soffermano molto sul conflitto psicologico della donna, lacerata tra i doveri nei confronti della patria e del padre e l’amore sorto per lo straniero Giasone approdato nella terra della Colchide. Nel poeta latino i conflitti psicologici sono complicati da turbamenti religiosi.
Nelle Heroides di Ovidio la donna si muove all’interno di un retroterra elegiaco per approdare, infine, ad una dimensione eroica, che sfocia nella vendetta e nell’omicidio. L’esordio della lettera indulge all’ironia: Esule, senza mezzi, disprezzata, Medea scrive al novello sposo, o forse non hai tempo libero dagli impegni del regno? Eppure mi ricordo: io, regina di Colchide, tralasciai i miei impegni, quando chiedesti che la mia arte ti venisse in aiuto!
La donna si dispiace di non essere morta prima di aver conosciuto Giasone, di essersi innamorata dei suoi capelli biondi, della sua eleganza e della sua facondia. Si dispiace di aver aiutato Giasone impedendogli di morire mentre affrontava i tori dalle teste fiammeggianti. Erano i tori di Marte, pericolosi ben più che per le corna: «Il loro terribile alito era di fuoco, gli zoccoli tutti di bronzo e di bronzo erano ricoperte le narici, anch'esse annerite dal loro fiato. Giasone riuscì ad affrontare questa ed altre prove insuperabili grazie alle arti magiche di Medea».
Vanta, così, i propri meriti di fronte al marito, per averlo accolto quando giunse come forestiero nella Colchide, bello, dallo sguardo ammaliante. Lo accusa di essere un traditore, che si è avvalso della propria facondia e della bocca menzognera: «La sorte ti ha dato il potere di decidere della mia salvezza, e la vita e la morte sono in mano tua. […] Se mi salverai, avrai una gloria maggiore. Ti prego, per le sventure che mi aspettano, dalle quali tu mi puoi sollevare, per la tua stirpe e la divinità del tuo avo che tutto vede, per il triplice volto e per i sacri misteri di Diana e per gli altri dei, se la tua gente ne possiede: o fanciulla, abbi pietà di me, abbi pietà dei miei uomini, fa’ sì che, per il tuo aiuto, io divenga tuo per sempre! E se per caso non disdegni un marito greco […], il mio spirito vitale si dissolva nell'aria leggera, prima che un’altra donna, che non sia tu, divenga sposa nel mio talamo. Sia testimone Giunone, preposta alle cerimonie coniugali e la dea, nel cui tempio di marmo ci troviamo!»
Medea venne sedotta dall’arte suasoria del giovane greco, che giurava eterna fedeltà fino alla morte. Fu lei ad aiutarlo, non certo la nuova futura sposa che lui attende. Medea tradì il padre, il regno, la patria. Alzò la mano contro il fratello compiendo un’azione che ora nella lettera non ha il coraggio di ricordare. La sua «verginità divenne conquista di un predone straniero». Medea si augura ora che lei e il marito espiino entrambi le proprie colpe morendo in mezzo al mare. La maga alterna alle maledizioni scagliate contro Giasone i dolci ricordi del matrimonio. Toni nostalgici ed elegiaci si mescolano con propositi di vendetta, che diverranno «il sacrificio d'espiazione» per l’assassinio del fratello.
Medea si vede ora sola, abbandonata dallo sposo che era divenuto il suo unico affetto significativo, assoluto, in nome del cuore sacrificare ed offrire tutto il resto. Si sente abbandonata anche dalle arti magiche, ha perso perfino il sonno. Ora «una rivale abbraccia le membra» che lei ha salvato ed è sempre la rivale «a cogliere il frutto» della fatica di Medea. Quando i pensieri della maga confluiscono tutti sulla nuova sposa di Giasone, il desiderio di vendetta sembra dominare definitivamente: «Rida pure, lei, e gioisca dei miei difetti. Rida, […] piangerà e sarà bruciata da fiamme che supereranno le mie. Finché ci saranno ferro e fuoco ed essenze velenose, nessun nemico di Medea resterà impunito».
Ma non è così. Il furor non è divenuto ancora assoluto. Un ultimo assalto può essere lanciato contro il marito, ricordandogli i figli, l’importanza di mantenere vicino a loro la madre e non una matrigna che non vorrà loro bene. Prega con infinite suppliche Giasone di restituirle il letto nuziale, di conservare il giuramento fattole, di restituirle l’aiuto che lei gli ha offerto tempo addietro. Vanta la propria superiorità eroica come un orgoglio insuperabile: «La mia dote sei tu, salvo, la mia dote è la gioventù greca. Va’ ora, disonesto, fa’ il confronto con le ricchezze di Sisifo! Che tu viva, che abbia una sposa ed un suocero potente, il fatto stesso che tu possa essere ingrato, persino questo, è merito mio».
Medea conclude cosciente che «l’ira genera enormi minacce» e che la sua mente sta progettando un’azione scellerata e spropositata. La donna sta alludendo all’omicidio dei figli attraverso il quale rinnegherà la carne della propria carne.