Legge omofobia, le bugie di Scalfarotto
Nella sua intervista rilasciata al quotidiano online Giornalettismo, Ivan Scalfarotto nega che la futura legge sull'omofobia censuri i pareri contrari ai matrimoni gay. Ma la legge Mancino-Reale contro il razzismo - che si vorrebbe estesa all'omofobia - ha già provocato condanne per reati di opinione.
In un’intervista pubblicata sul quotidiano online Giornalettismo all’on. Ivan Scalfarotto è stata posta questa domanda: «Chi esprime un’idea contraria al matrimonio omosessuale o alle unioni civili, rischia la galera?». Questa la risposta dell’ineffabile Sottosegretario ai rapporti con il parlamento: «Assolutamente no. E per due motivi fondamentali. Il primo è che qui stiamo parlando dell’estensione della legge Reale-Mancino, che non ha mai colpito le opinioni. Poi c’è la costituzione che protegge la libertà di pensiero eppure, non contenti di questo, ci abbiamo messo l’emendamento Verini che esplicitamente fa salve le opinioni».
Con un’unica risposta Scalfarotto è riuscito a dire due cose non vere. Analizziamole entrambi partendo da quella relativa alle conseguenze della Legge Mancino. Evidentemente i numerosi impegni politici del deputato PD (compresa la sua candidatura alla leadership nazionale del centrosinistra alle elezioni primarie de L'Unione del 2005) lo hanno tenuto lontano dalla cronaca giudiziaria. Basta ricordarne due tra i numerosi casi di applicazione della Legge Mancino, per far capire all’attuale Sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, qual è l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione sul tema.
Cominciamo dal primo. Nel 2001 l’attuale sindaco di Verona Flavio Tosi - insieme alla moglie Barbara e ai compagni di partito Matteo Bragantini, Enrico Corsi e Maurizio Filippi – viene rinviato a giudizio su accusa del procuratore Guido Papalia per aver violato proprio la legge Mancino, partecipando attivamente alla campagna di protesta, organizzata dalla Lega Nord di Verona contro un campo nomadi abusivo intitolata “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari dalla nostra città”. Nel 2005 tutti gli imputati vengono condannati a sei mesi di reclusione e a tre anni di interdizione dai pubblici uffici, con la motivazione che gli stessi imputati hanno «diffuso idee fondate sulla superiorità e sull'odio razziale ed etnico e incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato un concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato».
Nel 2007 la Corte di Appello di Venezia confermava, pur riducendo le pene, la condanna per aver organizzato una propaganda di idee fondate sull'odio e sulla superiorità etnica e razziale. La Corte, infatti, riteneva che la petizione promossa dagli imputati fosse di per sé lecita, ma riconosceva che la campagna mediatica promossa diffondesse idee fondate sulla superiorità e sull'odio razziale. Nel 2007 la Corte di Cassazione annullava la sentenza d'appello ritenendola carente sotto il profilo motivazionale, rinviando Tosi e gli altri imputati a nuovo giudizio.
Nel 2008 la Corte d’appello di Venezia ha confermato la condanna di Tosi e degli altri imputati.
Con la sentenza n. 41819 del 10 luglio 2009, la Quarta Sezione della Suprema Corte di Cassazione statuiva che «è configurabile il reato di propaganda di idee discriminatorie, previsto dall'art. 3, comma primo lett. a), della L. n. 654 del 1975, nell'affissione di manifesti sui muri della città del seguente tenore: “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari”». Interessante è notare il ragionamento dei giudici nella prima sentenza della Cassazione del 2007. In quel provvedimento di annullamento con rinvio, infatti, ai giudici della Corte d’Appello viene espressamente chiesto di stabilire se il pregiudizio razziale mostrato dagli imputati costituisse – tenuto conto delle circostanze temporali ed ambientali nelle quali era stato espresso – un’idea discriminatoria fondata sulla diversità e non sul comportamento. In pratica, i giudici sono stati invitati a discettare sulle singole frasi del manifesto e a scoprire quale "idea" muovesse i promotori della raccolta di firme: essi esprimevano un'idea fondata sulla "diversità" degli zingari o sul loro comportamento discutibile? Ma questo modus operandi è assai pericoloso. Non si può lasciare alla discrezionalità del giudice – e, quindi alla sua personale Weltanschauung – una simile valutazione.
Il ragionamento diventa più evidente se si considera il secondo caso, ovvero quello legato alla vicenda di Emilio Giuliana, consigliere comunale di Trento. In un intervento tenuto in aula dallo stesso consigliere, questi lamentava il fatto che l'asilo strutturato nel campo nomadi non era frequentato dai bambini, mentre la mensa, invece, risultava pienamente utilizzata da tutti gli occupanti del campo, e criticava, conseguentemente, non solo il carico economico gravante sulla collettività per tali servizi, ma anche l’opportunismo di detta comunità. Nella foga del discorso, il consigliere Giuliana si è lasciato, poi, andare ad espressioni poco felici, come il fatto che gli zingari fossero dei delinquenti, molti assassini e comunque animati da pigrizia, furore e vanità.
Denunciato per violazione della Legge Mancino, il Giuliana finisce rinviato a giudizio, ma viene assolto, sia in primo che in secondo grado. Infatti, il Tribunale e la Corte d'appello di Trento hanno ritenuto le frasi del consigliere espressive di avversione, ma non di superiorità ed odio razziale. Inoltre entrambi i giudici avevano escluso che nel caso di specie si potesse parlare di “propaganda”. Per i giudici del Tribunale e della Corte d’Appello di Trento, quindi, non vi erano i presupposti per l’applicazione della Legge Mancino. Non l’ha pensata in questo modo, però, la Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione che, infatti, con la sentenza n. 47894 del 22 novembre 2011 ha condannato il consigliere Giuliana, sul presupposto che «integra il reato di propaganda di idee discriminatrici, previsto dall'art. 3 comma primo lett. a) della l. n. 654 del 1975, l’intervento di un consigliere comunale contenente affermazioni fondate sull'odio e la discriminazione razziale ai danni delle Comunità Rom e Sinti nel corso di una seduta consiliare». La stessa sentenza della Cassazione ha poi escluso che la condotta di "propaganda" sia qualcosa di meno della semplice diffusione: «il reato previsto dalla L. n. 654 del 1975, art. 3, lett. a) non esclude affatto dall'alveo precettivo anche un’isolata manifestazione a connotazione razzista; l'elemento che caratterizza la fattispecie è la propaganda discriminatoria, intesa come diffusione di un’idea di avversione tutt’altro che superficiale, non già indirizzata verso un gruppo di zingari (magari quelli dediti ai furti), ma verso tutti gli zingari».
Per quanto riguarda la propaganda, quindi, secondo la Cassazione nessun ostacolo alla punizione: in sostanza basta pronunciare le frasi in pubblico, ad esempio, come nel caso Giuliana, durante la seduta di un Consiglio comunale. Ad essere state ritenute punibili sono due condotte che rientrano nell'alveo della democrazia: in un caso, l’intervento di un consigliere comunale nell'assemblea cittadina, nell’altro, una raccolta di firme per una petizione, espressione di una democrazia partecipata, accompagnata da riunioni pubbliche. Tali condotte si sono concretizzate nella semplice manifestazione del proprio pensiero: le frasi pronunciate o scritte erano certamente discutibili e censurabili, ma non erano del tutto sganciate dalla realtà concreta. Il solo fatto che le idee fossero state manifestate pubblicamente è stato ritenuto sufficiente per integrare una "propaganda". I giudici, in realtà, hanno analizzato le singole frasi per ricavare l'idea di fondo che muoveva chi le pronunciava. Siamo ancora una volta allo “psicoreato” orwelliano.
Ora, non è difficile neppure per l’onorevole Scalfarotto immaginare quale sarà l’applicazione del citato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, qualora la Legge Mancino venisse estesa agli omosessuali e ai transessuali. Ed è facile intuire come essa verrà applicata nei confronti di coloro che, per esempio, invocano pubblicamente (propaganda) il divieto per gli omosessuali di accedere al diritto al matrimonio, all’adozione di minori, alla fecondazione artificiale, o nei confronti di coloro che ritengono l’omosessualità una «grave depravazione», citando le Sacre Scritture (Gn 19,1-29; Rm 1,24-27; 1 Cor 6,9-10; 1 Tm 1,10), o considerano la stessa omosessualità come un insieme di atti «intrinsecamente disordinati», e «contrari alla legge naturale», poiché «precludono all’atto sessuale il dono della vita e non costituiscono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale» (art. 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica). Si parlerà di «discriminazione», di «superiorità di un orientamento sessuale su un altro», di «affermazioni offensive», di «incitazione all’odio», secondo lo schema britannico dello ”hate speech”? Dipenderà dal giudice, e, quindi, secondo il noto adagio dei saggi romani «tot capitae, tot sententiae», il principio di legalità penale andrà a farsi benedire. In ogni caso, ci penserà la Suprema Corte di Cassazione a dire l’ultima parola. L’orientamento giurisprudenziale, come si è visto, appare inequivoco e chiarissimo. Purtroppo.
Veniamo ora ad analizzare la questione relativa al cosiddetto emendamento Verini. Scalfarotto si riferisce a quella disposizione del disegno di legge in discussione al Senato – prevista nella prima parte della lett.c) dell’art.1 del DDL S.1052 –, la quale sancisce quanto segue: «Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente».
Ora, che la «libera espressione delle opinioni» non costituisca di per sé «discriminazione», è un fatto oggettivo desumibile in re ipsa. Non occorre neppure scomodare Monsieur de La Pallisse. Sotto il profilo giuridico, poi, a tutelare la «libera espressione delle opinioni» già è posto il baluardo dell’art. 21 della Costituzione. Il fatto è che qui stiamo ragionando in ambito penale, e la questione si fa tremendamente seria. Utilizzare concetti quali «odio», «discriminazione», «pluralismo delle idee», «libera opinione», che non sono definiti dal codice penale (e che vengono quindi rimessi alla libera valutazione del magistrato) è operazione giuridica tanto azzardata, quanto pericolosa sotto il profilo dello stesso art.21 della Costituzione.
Facciamo un esempio per comprendere meglio. Dice la norma che la libera manifestazione delle opinioni è consentita purché non istighi all’odio. Ora, ricordare pubblicamente la dottrina cattolica nel punto in cui si ribadisce che «il peccato dei sodomiti è uno dei quattro peccati mortali che gridano al cielo» (art. 1867 del Catechismo della Chiesa Cattolica), e che destinano gli stessi omosessuali alla dannazione eterna, sarà considerato – come accade in Gran Bretagna – incitazione all’odio? Dipenderà dalla particolare sensibilità del giudice. Sostenere che l’eterosessualità ha una superiorità morale rispetto all’omosessualità, perché questa è una «grave depravazione» (art. 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica) sarà considerato – come accade in Gran Bretagna – incitazione all’odio? Dipenderà dalla particolare sensibilità del giudice. Sostenere che gli omosessuali non possono e non devono accedere ad alcuni diritti, come il diritto al matrimonio e all’adozione di minori, a causa del loro orientamento sessuale, sarà considerato – come accade in Gran Bretagna – «discriminazione» e «incitazione all’odio»? Dipenderà dalla particolare sensibilità del giudice. L’esperienza anglosassone relativa al concetto di “hate speech” rende evidentissimi il rischio di rimettere all’interpretazione concetti non definiti dalla legge. E questo è il punto che Scalfarotto finge di ignorare.
Del resto, la stessa previsione di una “clausola di garanzia”, di una “norma di salvaguardia”, o come la si voglia chiamare, è sintomatica del pericolo percepito dallo stesso ordinamento in ordine al diritto alla libera manifestazione del pensiero (art.21 Cost.) e del diritto alla libertà religiosa (art.19 Cost.). È più che evidente la consapevolezza di addentrarsi in un terreno scivolosissimo e insidioso, tanto da avvertire l’esigenza di adottare, appunto, idonee guarentigie.
Il vizio di origine dell’intervento legislativo per contrastare il fenomeno dell’omofobia, che trae origine dal DDL Scalfarotto, sta proprio nel fatto che non si è deciso di adottare una nuova legge ad hoc sulla materia, ma si è ritenuto di utilizzare uno strumento normativo già esistente, ovvero la Legge Reale Mancino nata, tra l’altro, per combattere il fenomeno dell’antisemitismo e del razzismo. Ora, a prescindere dall’evidente incongruenza logica derivante dal fatto di considerare gli omosessuali e i transessuali una “razza” come i neri, gli ebrei o i rom, sono le conseguenze sanzionatorie che appaiono aberranti. Oggi, ad esempio, chi sostenesse pubblicamente di essere contrario al matrimonio misto tra etnie diverse, o si battesse per introdurre tale divieto per legge, rischierebbe, proprio in virtù delle disposizioni normative della Legge Reale Mancino, la reclusione fino a un massimo di un anno e sei mesi se parlasse a titolo personale, fino ad un massimo di quattro anni se chi fa quell’affermazione partecipa a organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che propugnato tali idee, e fino ad un massimo di sei anni se parlasse in qualità di presidente o dirigente di simili organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi. Una volta estesa la Legge Reale Mancino agli omosessuali e ai transessuali, sono automaticamente estese tutte le relative conseguenze giuridiche.
Sempre dall’intervista di Scalfarotto a Giornalettismo, infine, apprendiamo che lo stesso onorevole ha già di fatto scaricato il sub-emendamento Gitti. Questo il suo epitaffio: «È un emendamento che auspico il Senato voglia eliminare, anche perché dice male ciò che è già contenuto nell’emendamento Verini». Tanto per intenderci, il cosiddetto sub-emendamento Gitti, – previsto nella seconda parte della lettera c) dell’art.1 del DDL S1052 –, è quello secondo cui non costituiscono discriminazione, o istigazione alla discriminazione le opinioni «assunte all’interno di organizzazioni che svolgono un’attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione, ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni». Questa norma sosterrebbe che all’interno di organizzazioni politiche, sindacali, culturali, sanitarie, di istruzione o religiose si posso impunemente esprimere idee omofobe. In pratica, per fare un esempio comprensibile, sarebbe come dire: se una persona ruba da sola, commette un furto e finisce in galera, se invece si associa con altri può tranquillamente rubare senza nessuna conseguenza di carattere penale. L’omofobia individuale sarebbe illecita, mentre quella collettiva sarebbe perfettamente legale. Non occorrono le celebri doti divinatorie di Nostradamus per intuire quanto potrà reggere un simile impianto dinanzi alla Corte costituzione, se si considera che nel nostro sistema penale l’elemento associativo è considerato un’aggravante e mai una scriminante. Non si comprende, poi, perché una persona singolarmente non possa chiedere in divieto per legge del matrimonio gay, ma sia costretta ad associarsi per poterlo fare.
In realtà, che l’on. Scalfarotto non avesse mai visto di buon occhio il sub-emendamento Gitti era cosa risaputa. Ne è prova l’interpretazione autentica da lui data il giorno successivo all’approvazione del disegno di legge alla Camera: «Il sub-emendamento Gitti in realtà è molto meno preoccupante di come sia stato descritto. Basta leggerlo. Vi si dice che non costituiscono atti di discriminazione le condotte delle organizzazioni di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto a queste condizioni: a) se sono conformi al diritto vigente; b) se sono assunte all’interno (non all’esterno) della organizzazione; c) se si riferiscono all’attuazione di principi e di valori di rilevanza costituzionale». Tradotto, significa, ad esempio, che i cattolici nel chiuso delle loro sagrestie possono leggersi tranquillamente i passi “omofobi” di San Paolo e il Catechismo della Chiesa cattolica, ma non possono azzardarsi a farlo pubblicamente all’esterno.
Sulla questione relativa all’asserita norma di salvaguardia merita di essere riportato un passo dell’intervento tenuto dal Prof. Ferrando Mantovani, autorità indiscussa del diritto penale italiano, in occasione del convegno svoltosi il 19 gennaio 2014 a Palazzo Vecchio di Firenze, dal titolo: “Proposta di Legge Scalfarotto: quali criticità per la Costituzione, i diritti minorili ed i mass media?”. In quell’occasione, l’insigne ed esimio giurista si è espresso proprio sulla cosiddetta “clausola di garanzia” dell’emendamento Verini-Gitti, sostenendo che essa «oltre che costituire l’espresso riconoscimento, da parte del legislatore, della pericolosità della suddetta normativa, innanzitutto per il diritto di libera manifestazione del pensiero, è clausola: 1) del tutto atipica ed eccentrica, non trovando significativamente alcun analogo precedente nel nostro ordinamento giuridico; 2) non priva di ambiguità, per la genericità ed indeterminatezza della terminologia usata, che si presta alle più diverse interpretazioni del giudice, e di verbosità, perché l’onnicomprensiva locuzione delle «condotte conformi al diritto vigente» è sufficiente per scriminare ogni attività giuridicamente autorizzata, innanzitutto dalle norme costituzionali sulla libertà di manifestazione del pensiero, sulla libertà religiosa e sulla libertà di educazione dei genitori verso i figli; 3) è inutile, se si limita a tutelare la libertà di manifestazione del pensiero in materia di orientamenti sessuali, essendo tale libertà garantita a livello costituzionale dall’art. 21 Cost.; 4) è incostituzionale se intende, quale legge ordinaria, limitare la libertà di manifestazione del pensiero o altre libertà riconosciute e garantite a livello costituzionale, riconoscendole soltanto all’interno (e non all’esterno) delle organizzazioni elencate dalla suddetta clausola e non anche ai singoli individui non organizzati». Non c’è null’altro da aggiungere.