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JIHAD E PROPAGANDA

Le vittime dei jihadisti non sono tutte uguali

Antonio Megalizzi, vittima italiana dell’attentato di Strasburgo. La Bonino lo definisce "un eroe europeo". È diventato un simbolo. Non come tante altre vittime del terrorismo islamico, dimenticate o addirittura stigmatizzate per ragioni ideologiche. E sì che il terrorismo jihadista uccide tutti allo stesso modo, indiscriminatamente.

Politica 18_12_2018
Strasburgo, omaggio alle vittime

Antonio Megalizzi, vittima italiana dell’attentato di Strasburgo. La salma, dopo le procedure legate all'autopsia in Francia, sarà a Roma nella giornata di domani, forse anche questa sera stessa. Sarà seppellito a Trento, con funerale di Stato. È la 44esima vittima italiana del terrorismo islamico. Di lui si parla come di un eroe, si rilegge il suo racconto pacifista Cielo d’Acciaio, si riascoltano in podcast le sue trasmissione su Radio Euphoria. È grande l’attenzione per questo giovane uomo di 28 anni, giornalista (ancora privo di tessera) che copriva le sedute del Parlamento Europeo di Strasburgo. Emma Bonino, leader di +Europa, lo definisce “un eroe europeo” nella sua intervista al Corriere della Sera.

Se le parole hanno un senso, quelle della Bonino saranno sicuramente di conforto ai parenti della vittima. Ma ci aiutano a capire cosa sia successo, perché sia stato assassinato? La Bonino spiega, in fondo alla sua intervista: “era il simbolo di un’attenzione europeista molto forte che hanno gli italiani oltre le Alpi”. Ecco: simbolo, più che persona. E la celebrazione corale di questi due giorni lo conferma. Al Consiglio Comunale di Milano, ad esempio, ieri lo hanno ricordato con un minuto di silenzio e con queste parole: “molto attivo sul fronte civile. Era un convinto europeista che credeva in un'Italia più forte in un'Europa che cresce”. Come un’altra vittima del terrorismo prima di Megalizzi, Valeria Solesin, assassinata al teatro Bataclan di Parigi da altri terroristi dell’Isis il 13 novembre 2015. Anche la Solesin, ragazza di Venezia che studiava alla Sorbonne, si è parlato come di un simbolo di una gioventù europea, non solo italiana, una generazione senza frontiere che unisce i popoli. Di chi ha assassinato Megalizzi e la Solesin non si parla quasi mai, né della causa che ha fatto premere il grilletto.

Né Megalizzi né la Solesin sono stati assassinati per quello che pensavano. Non sono stati uccisi per quello che facevano. Potevano essere chiunque. Di fronte agli occhi del terrorista dell’Isis che ha assassinato la studentessa veneziana, lei era una delle tante centinaia di persone infedeli che seguivano un concerto “sacrilego”. Di fronte agli occhi di Cherif Chekatt, Antonio Megalizzi era solo un infedele fra infedeli e apostati, che si trovava al momento sbagliato nel posto sbagliato, in un “sacrilego” mercatino di Natale, in una città simbolica quale è Strasburgo. Era un bersaglio fra i tanti, tutti “legittimi obiettivi” dal punto di vista jihadista, al pari di Kamal Naghchband, meccanico afgano, musulmano praticante, cogestore di un garage vicino alla moschea di Strasburgo, in cui si recava a pregare. Quel giorno era a fare compere per i regali natalizi, è stato ammazzato davanti agli occhi dei figli. Come Anupong Suebsamarn, imprenditore tailandese, in vacanza a Strasburgo perché, a causa della sommossa dei gilet gialli, aveva evitato Parigi. È stato assassinato quando era assieme a sua moglie, anch’ella ferita nella strage. È stato ucciso come il francese Pascal Verdenne, appena uscito da un ristorante, mentre attendeva che moglie e figli lo raggiungessero. E come Barto Pedro Orent-Niedzielski, collega polacco di Megalizzi, morto proprio ieri a seguito delle ferite riportate. È stato colpito assieme al giornalista italiano, mentre in una pausa facevano shopping assieme a due amiche, miracolosamente scampate alla strage.

È questo il senso del tutto: persone sbagliate nel posto sbagliato. Il terrorismo jihadista uccide chiunque sia a tiro, quando il terrorista ritiene di colpire e distruggere un bersaglio legittimo, in base a un’agenda religiosa che chiunque, alle nostre latitudini, stenterebbe a capire. Tutti i caduti nella guerra scatenata dal terrorismo sono uguali, indipendentemente dal sesso, dalla nazionalità, dalla religione e dalle loro idee.

Invece siamo purtroppo costretti a constatare che il giornalismo italiano distingue fra vittime di serie A e di serie B. Ci sono morti che vengono pianti solo dai loro famigliari, che conquistano un solo trafiletto in cronaca, o vengono sepolti dalla memoria collettiva subito dopo il rimpatrio della salma e il funerale. Non ha ottenuto la stessa visibilità di Megalizzi, per esempio, Sisto Malaspina, 74 anni, assassinato da un terrorista dell’Isis a Melbourne, Australia, lo scorso 9 novembre. Era un ristoratore, emigrato in Australia nel 1963. Pochi ricordano i nomi degli italiani uccisi dal terrorista di Barcellona, travolti dal suo camion, il 17 agosto dell’anno scorso: sono Bruno Gulotta e Luca Russo e l’italo-argentina Carmen Lopardo. Rircordate i nomi dei sei italiani assassinati dal tir guidato da un altro terrorista dell’Isis a Nizza? Sono: Mario Casati e la compagna Maria Grazia Ascoli, Carla Gaveglio, Angelo D'Agostino e la moglie Gianna Muset, e l'italoamericano Nicolas Leslie. O le tante vittime italiane dell'attacco jihadista al museo Bardo di Tunisi, il 18 marzo 2015? Erano: Antonella Sesino, 54 anni, dipendente del Comune di Torino, Giuseppina Biella, settantenne di Meda, vicino a Monza, in vacanza in Tunisia insieme al marito, il torinese Orazio Conte, informatico di 54 anni, e Francesco Caldara, pensionato di Novara in vacanza con la compagna rimasta ferita.

La memoria recente ci riporta alla strage di Dacca, Bangladesh 1 luglio 2016, nove italiani uccisi: Adele Puglisi, Marco Tondat, Claudia Maria D'Antona, Nadia Benedetti, Vincenzo D'Allestro, Maria Riboli, Cristian Rossi, Claudio Cappelli e Simona Monti. Dieci, se si conta il figlio di Simona, non ancora nato. Il padre di quest'ultima, torturata e assassinata dai terroristi quando era al quinto mese di gravidanza, dichiarava ieri al Tg2 di non sapere più nulla del processo e delle indagini legate all'attentato, solo una manciata di articoli bengalesi tradotti in italiano. Il signor Monti si sente chiaramente abbandonato dal suo Stato, due anni e mezzo dopo l’assassinio di sua figlia e del nipote che attendeva. Così come si sentono dimenticati e abbandonati i parenti delle altre vittime. Subito dopo il massacro i giornali si affrettavano ad assolvere le vittime italiane. Da… cosa? Dall’accusa di “sfruttamento”. Molti blogger e giornalisti di sinistra, vista la professione che svolgevano (imprenditori, per la maggior parte), avevano infatti ricollegato pregiudizialmente la tragedia allo sfruttamento del lavoro.

Perché di fronte alle vittime italiane del jihadismo c'è purtroppo anche questo elemento: il pregiudizio ideologico. Guai a morire quando si è “dalla parte sbagliata”. Fabrizio Quattrocchi, rapito e assassinato da jihadisti in Iraq, prima che il colpo finale lo freddasse provò a togliersi la benda e disse “vi faccio vedere come muore un italiano”. In Iraq era andato come guardia della sicurezza privata. La sua ultima frase, invece che essere riconosciuta come espressione di coraggio di fronte alla morte, venne stigmatizzata. Sulla medaglia al valor civile di cui è stato insignito, post mortem, c'è stata anche polemica. Vauro gli dedicò una vignetta in cui era rappresentato un dollaro a mezz’asta. “Morire per denaro” era il titolo.