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L'INTERVISTA

Lavoro, il decreto di Di Maio rema contro la realtà

Decreto Dignità, questo è il nome del primo atto di governo per regolare il mercato del lavoro. Una regolamentazione che sa di antico: tutelare il posto fisso, punire la mobilità e la temporaneità dei lavori tipici di una economia moderna. Ne parliamo con Giuseppe Sabella (Think-in), esperto del mercato del lavoro. 

Economia 04_07_2018
Di Maio presenta il Decreto Dignità

Decreto Dignità, questo è il nome del primo atto di governo per regolare il mercato del lavoro. Il ministro Di Maio, dopo aver incontrato i “riders” e aver puntato il dito contro le aziende che delocalizzano, ha formulato una normativa che contiene entrambi i temi e molto altro. Il risultato, però, sa di antico: tutela del posto fisso, disincentivo per chi assume a tempo determinato, stretta sulla somministrazione, multe salatissime per le aziende che delocalizzano, se hanno ricevuto denaro pubblico. 

Si tratta di un’inversione di rotta rispetto a molte politiche del lavoro, soprattutto quelle del Jobs Act di Renzi e dei precedenti governi di centrodestra. La prima misura che si nota è la stangata su chi licenzia, senza giusta causa, un lavoratore assunto a tempo indeterminato: dovrà pagare un massimo di 36 mensilità di stipendio come indennizzo, contro le 24 attuali. L’indennizzo minimo potrebbe salire a 6 mensilità, dalle 4 attuali. Stretta anche sulle assunzioni a tempo determinato. Oggi un datore di lavoro può assumere un dipendente fino a 36 mesi, senza causali, cioè senza specificare per quale specifico compito viene assunto. Con il nuovo decreto questo periodo si riduce a un terzo, a 12 mesi senza causale. Poi, nel rinnovo, il tempo determinato dovrà essere giustificato da una di queste motivazioni: se è un lavoro svolto una tantum (estraneo all’attività ordinaria del datore di lavoro) o sostitutivo; se è motivato da un aumento non programmabile dell’attività ordinaria; se è legato a un picco stagionale. Solo in questi casi, il contratto a termine potrà essere rinnovato per altri 12 mesi, dunque 24 in tutto. La somministrazione di lavoro - che si ha quando ad assumere è un’intermediario che poi a sua volta “presta” il lavoratore ad un’azienda terza utilizzatrice - con questo decreto viene equiparata al contratto a termine, con tutti i limiti che abbiamo visto. Infine, per le aziende che ricevono contributi pubblici e (entro cinque anni) delocalizzano, saranno previste multe salatissime, da 2 a 4 volte l’importo dei contributi incassati.

La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Giuseppe Sabella, esperto di mercato del lavoro e analista veterano di relazioni industriali, direttore del think tank Think-in e autore di Da Torino a Roma: attacco al sindacato - La crisi dei corpi intermedi e il futuro della rappresentanza (introduzione di Giorgio Squinzi) e Il Vangelo del Lavoro - Etica e Persona nel magistero sociale di San Giovanni Paolo II (con l’introduzione del cardinal George Pell), oltre ad aver curato l’edizione italiana di Cos’è il lavoro? Una prospettiva cristiana di Lester DeKoster (con l’introduzione di Monsignor Giampaolo Crepaldi). Il problema vero del nuovo decreto, secondo Sabella, è di approccio: “Sostanzialmente emerge ancora una volta un equivoco di fondo, ovvero l’idea dell’inamovibilità del lavoro, contrapposta alla sua caratteristica odierna: la temporaneità. E la temporaneità del lavoro non viene decisa dal legislatore, semmai è figlia di una economia oggi profondamente cambiata. Nel momento in cui il decisore politico disciplina la materia, non coglie la realtà odierna, se intende, come Di Maio, il lavoro come ‘posto’ e soprattutto come posto inamovibile. Il lavoro è cambiato profondamente, non c’è più la ‘proprietà del posto di lavoro’, tipica della vecchia economia (si entrava in un’azienda da giovani e sovente vi si usciva per la pensione). In realtà si dovrebbe riconoscere la temporaneità e semmai introdurre delle tutele per far sì che, chi è in uscita dal lavoro temporaneo, vi possa rientrare nel più breve tempo possibile. Il decreto Di Maio non riferisce nulla di tutto questo, nessuna allusione per esempio alle politiche attive del lavoro. Il Jobs Act, con tutti i suoi limiti, almeno provava ad affrontare la realtà del lavoro così come è. Questo decreto, al contrario, si avvicina molto di più alla logica della precedente riforma Fornero (ai tempi del governo Monti, 2011-2013, ndr) che ha cercato anch’essa di limitare l’utilizzo di forme di lavoro temporaneo, irrigidendome la disciplina. Proprio come il Decreto Dignità. Tutto ciò serve davvero a poco, perché l’unico suo effetto reale è di ridurre le opportunità”. Come si è già visto in passato. Infatti, la riforma Fornero, a suo tempo: “in un momento di difficoltà gravi dell’economia, irrigidendo le regole, ha sortito l’effetto di produrre più lavoro nero. E non può che essere così. Il legislatore non può che partire dalla spontaneità dello scambio. Perché il rapporto di lavoro è uno scambio, uno scambio spontaneo in cui, certamente, vanno introdotte delle tutele per la parte meno forte, il lavoratore. Oltretutto, in Italia non ci sono uguali condizioni di mercato, da Nord a Sud. La tendenza a regolare mercati diversi allo stesso modo, con regole rigide, è in sé dannosa”.

Anche nel caso delle delocalizzazione, non è in discussione l’idea di punire chi incassa soldi pubblici per poi portarsi capitale, know-how e macchinari all’estero. Tuttavia, “Se dimentichiamo di rendere più attrattivo il terreno su cui un investitore scommette, non facciamo il bene del lavoro. Spesso le aziende che delocalizzano lo fanno per tasse troppo alte, per troppa burocrazia, per mancanza di infrastrutture e per un costo eccessivo dell’energia. Non dobbiamo dimenticare che, anche a causa della nostra rinuncia all’energia nucleare, paghiamo in bolletta il 30% in più, in media, rispetto alle economie avanzate in Europa. Chi delocalizza, al netto di chi commette abusi, non è necessariamente il furbo da perseguire. Se si vuole crescita, il decisore politico ha il dovere di creare le condizioni che permettono alle aziende di svilupparsi e di sviluppare lavoro”. Di Maio ha parlato di sgravi fiscali per chi assume, ma non ha indicato tempi, né cifre. “E’ giusto cercare di ridurre il costo del lavoro. Lo vedremo quando verrà presentata la legge di bilancio”.

Anche per quanto riguarda la somministrazione, “è una forma di lavoro che nasce con la riforma Biagi, nel 2003, con cui si permette all’intermediario di assumere e prestare l’opera del dipendente. L’intermediario è dunque il datore di lavoro. Ma, alla fine, se l’intermediario è serio e assume a tempo determinato, ha tutto l’interesse a non abbandonare il bravo lavoratore. E’ precisamente nell’interesse dell’intermediario riproporre i lavoratori alla sua rete di imprese, e per questo farà in modo di sviluppare la sua ‘risorsa’ umana con un piano di crescita, anche di formazione. Punendo o limitando la figura dell’intermediario, si ottiene solo di perdere occasioni. Soprattutto, ripeto, in un’epoca caratterizzata dalla temporaneità”.

La prima categoria che Di Maio ha voluto incontrare è quella dei “riders”, i ciclisti che vediamo correre per le strade delle nostre città, a consegnare pasti a domicilio, chiamati tramite una app e assunti da multinazionali. I “riders” sono privi di tutele, non hanno neppure l’assicurazione e Di Maio è andato a colpire un tema sensibile quando ha convocato a colloquio i loro datori di lavoro. “Al momento non si registra alcun provvedimento sulla materia – spiega Sabella – ma se l’idea è quella, come è emerso nell’ultimo tavolo con le confederazioni sindacali, di introdurre un nuovo contratto collettivo nazionale, allora si parte male. Il fenomeno dei riders si ha soprattutto a Milano e Roma. Pensare di fare un contratto collettivo nazionale per pochi lavoratori concentrati in due città, è un’idea, anche qui, molto dirigista. Per di più applicata a un settore appena nato, di cui sappiamo ancora pochissimo. Introdurre tutele è una cosa, tutt’altro è irrigidire i rapporti di lavoro”.