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ARCHEOLOGIA

L'anello di Pilato, l'uomo che crocefisse il Re dei Giudei

La scritta impressa su un anello di bronzo con sigillo, rinvenuto circa 50 anni fa durante degli scavi archeologici presso il sito dell’Herodion, a pochi chilometri da Betlemme, è stata recentemente decifrata dagli studiosi, che vi hanno identificato un nome significativo: Pilato.

Cultura 24_12_2018
Anello di Pilato

La scritta impressa su un anello di bronzo con sigillo, rinvenuto circa 50 anni fa durante degli scavi archeologici presso il sito dell’Herodion, a pochi chilometri da Betlemme, è stata recentemente decifrata dagli studiosi, che vi hanno identificato un nome significativo: Pilato. L’anello era stato ritrovato, insieme a migliaia di altri reperti risalenti al I secolo, grazie agli scavi guidati nel 1968-69 dal professor Gideon Foerster dell’Università Ebraica di Gerusalemme, eseguiti in vista dell’apertura dell’Herodion ai visitatori. L’Herodion è la collina su cui Erode il Grande fece costruire un palazzo-fortezza sul finire del I secolo a.C. che venne poi distrutto dai Romani intorno al 71 d.C., a seguito della prima guerra giudaica.

L’attuale squadra che lavora presso il sito archeologico, guidata da Roi Porath, anch’egli dell’Università Ebraica, è riuscita a discernere, dopo aver accuratamente pulito l’anello e grazie all’uso di una speciale fotocamera messa a disposizione dai laboratori dell’Autorità israeliana per le Antichità, il nome in greco impresso sull’anello e formato dalle lettere «ΠΙΛΑΤΟ», equivalenti appunto a «Pilato». I dettagli della ricerca sono stati pubblicati in un articolo sull’Israel Exploration Journal (vol. 68/2). La scritta circonda l’immagine di quel che sembra un recipiente per il vino. Dopo la decifrazione del nome i ricercatori lo hanno collegato al Ponzio Pilato di cui parlano tutti e quattro i Vangeli, dove è menzionato come il governatore della Giudea che acconsentì, pur riluttante, alla crocifissione di Gesù. Un nome che noi cristiani ripetiamo ogni volta che pronunciamo il Credo, ricordando che Nostro Signore patì «sotto Ponzio Pilato».

Oltre che dai quattro evangelisti, Pilato è menzionato negli scritti di altri autori a lui contemporanei, cioè lo storico d’origine ebraica Flavio Giuseppe (ca 37-100) e l’erudito Filone d’Alessandria (ca 20 a.C.-45 d.C.), nonché in un brano di Tacito (ca 55-120) risalente al 116 circa. La storia ce lo indica come il quinto governatore della Giudea romana, che resse tra il 26 e il 36. Non si conoscono altri personaggi dell’epoca aventi il suo stesso nome, che come ha spiegato il professor Danny Schwartz era più che una rarità in Israele: «Non conosco nessun altro Pilato del periodo e l’anello mostra che era una persona di levatura e ricchezza», ha detto Schwartz, citato dal quotidiano israeliano Haaretz.

Per gli studiosi, inoltre, un anello di questo tipo rivela lo status dei membri della cavalleria romana del tempo, cui lo stesso Pilato apparteneva. Il suo nome era stato ritrovato dal professor Foerster negli anni Sessanta anche su una pietra dell’Herodion, che dopo la morte di Erode continuò a servire come base dei funzionari romani ed è dunque verosimile che anche Pilato se ne servì come una sorta di quartier generale. Tornando all’anello con sigillo, i ricercatori ritengono che possa essere stato usato da Pilato nel suo lavoro quotidiano e, dunque, potrebbe averlo avuto al dito quando diede il suo via libera, preceduto dal gesto di lavarsi le mani, alla crocifissione di Gesù. Poco prima, riferisce san Giovanni Evangelista, il governatore romano aveva avuto il famoso dialogo con Gesù, che gli disse di essere venuto nel mondo «per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». E Pilato aveva poi chiesto: «Che cos’è la verità?» (Quid est veritas? Curiosamente, questa frase latina anagrammata contiene già in sé la risposta…).

NON SOLO INRI. PILATO E LA SCRITTA SULLA CROCE

Questa interessante ricerca contemporanea ci dà lo spunto per ricordare un altro fatto che riguarda Pilato e Gesù, relativamente poco noto, specie se considerato nella sua portata più ampia e rivelatrice. È risaputo che sopra la santa Croce il politico romano aveva fatto porre l’iscrizione - il cosiddetto titulus crucis - recante il motivo della condanna di Cristo: Iesus Nazarenus [1] Rex Iudaeorum («Gesù nazareno, il re dei Giudei»), le cui iniziali ci restituiscono la celebre sigla INRI. L’iscrizione, tuttavia, non era solo in latino. San Giovanni Evangelista, autore del quarto e ultimo Vangelo, ci informa infatti che la scritta era in ebraico, latino e greco. Un dettaglio irrilevante? Non proprio. Per capire perché facciamo un passo indietro nella Scrittura.

Nella teofania del roveto ardente, narrata nel libro dell’Esodo, Dio si rivela a Mosè ordinandogli di tornare in Egitto per liberare il suo popolo, Israele. Quando Mosè, domandosi in che modo gli Israeliti avrebbero mai potuto dargli retta, chiede a Dio di manifestargli il suo Nome, si sente rispondere: «Io Sono colui che Sono!». E poi: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Il sacro tetragramma corrispondente al Nome divino, che molti ebrei non osano pronunciare e rendono con il termine Adonai (Signore), è YHWH. Torniamo al racconto evangelico. Nel pieno della sua attività pubblica, mentre rivela la sua consostanzialità al Padre, Gesù fa una profezia a quei Giudei che stentano a riconoscerlo: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono» (Gv 8,28), dove l’innalzamento indica la sua crocifissione. Ma in che modo questa profezia si lega al titulus crucis?

Sempre Giovanni, nello stesso brano in cui ci informa della scritta eseguita in tre lingue, riferisce che «molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città». Da lì i capi dei sacerdoti dei Giudei protestarono con Pilato: «Non scrivere: Il re dei Giudei, ma: Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei». Certo, si può pensare che già da sola l’espressione re dei Giudei desse fastidio a chi non aveva accettato Gesù Cristo, ma c’è molto di più: ricordiamo che - quando Nostro Signore fu condotto davanti al sinedrio - il sommo sacerdote si stracciò le vesti, accusandolo di bestemmia, solo dopo che Gesù aveva confermato di essere il Figlio di Dio. Era questa infatti la vera inconcepibile «colpa» di Gesù per i suoi carnefici, essere uomo ma «farsi» Dio.

In definitiva: sappiamo della scritta in latino, ma com’era resa in ebraico? Lo scrittore Henri Tisot (1937-2011) si è rivolto a diversi rabbini per sapere quale fosse l’esatta trascrizione in ebraico di «Gesù nazareno, re dei Giudei» e ha scoperto che le lettere corrispondenti dovevano essere «שוע הנוצרי ומלך היהודים», le quali - traslitterate, vocalizzate e tenendo presente la lettura da destra verso sinistra - ci danno come risultato: Yeshua Hanotsri Wemelek Hayehudim. Le iniziali non sono altro che il tetragramma sacro: YHWH. Cioè il Nome di Dio rivelante l’Essere eterno e perfetto: Io-Sono. La profezia di Gesù era compiuta.

I Giudei che protestarono con Pilato si videro quindi improvvisamente davanti agli occhi - nel modo più impensabile - la Verità incarnata, il Dio fatto uomo, che avevano rifiutato e messo in croce. Ecco perché si rivela in tutto il suo significato l’iscrizione composta da Pilato e con essa la replica del governatore, ancora riferita da san Giovanni Evangelista, di fronte alla richiesta di quei Giudei: «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22). Come una sentenza, un sigillo che ci ricorda Chi è quel Bambino che festeggiamo a Natale e venuto in mezzo a noi per offrirci la salvezza.
 

[1] "Nazarinus", secondo il frammento di tavoletta custodito a Roma nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme e che corrisponderebbe alla forma corretta del latino nel I secolo.