Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA LECTIO MAGISTRALIS/3

«Laici impegnati senza paura del potere mondano»

I governanti non devono rifiutare di dare pubblico omaggio a Cristo Re, il quale è vero Legislatore e perciò ha vero potere temporale: legislativo, esecutivo e giudiziario. Per questo servono laici senza paura i quali sappiano che non è la Chiesa a dover imparare dal mondo quanto il mondo dalla Chiesa. I limiti sono nostri, non di Cristo e della sua verità. L'ultima puntata della lectio magistralis di don Mauro Gagliardi.

Documenti 25_02_2018

Concludiamo la lettura della lectio magistralis di don Mauro Gagliardi tenuta il 2 febbraio scorso al teatro Guanella nell'ambito della giornata di Dottrina sociale promossa dalla Nuova BQ e dall'Osservatorio Van Thuan. 

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Dopo questi riferimenti, diciamo qualcosa anche sul concetto di Regno secondo la rivelazione (per i dati seguenti, cf. M. Gagliardi, «La realeza de Jesús de Nazaret: aspectos cristológicos», in N. Derpich [ed.], El Reino de Cristo: Historia, Teología, Vida, Roma 2016, pp. 207-254). Gli esegeti ed i teologi sono oggi concordi nel sostenere che il centro della predicazione e dell’opera di Gesù è stato il messaggio riguardante il Regno di Dio. Ci sono molte interpretazioni riguardo al significato di questo concetto, tuttavia gli studiosi sono d’accordo nel rilevarne la centralità. Non avviene lo stesso riguardo al Re di questo Regno. Il Nuovo Testamento attribuisce a Gesù i titoli di Re, Re dei giudei, Re di Israele, Re dei re, per più di trenta volte. Eppure molti teologi contemporanei, pur scrivendo tanto sul tema del Regno, scrivono poco o niente sul Re. Addirittura, alcuni teologi hanno sostenuto che Gesù annunciava il Regno ma non se stesso. Un famoso teologo del Novecento, Yves Congar, riteneva invece che Gesù fosse Re, ma solo dalla parusia in poi, ossia che il suo Regno universale cominci solo alla fine dei tempi e non sin d’ora. Nel mondo, secondo Congar, Cristo regna, ma solo in modo invisibile, solo nei cuori dei buoni cristiani, e non sulla società.

È noto che il Magistero della Chiesa, particolarmente con papa Pio XI, ha invece insegnato la regalità anche sociale di Cristo. Secondo Pio XI, questa dottrina sarebbe anzi dogma di fede, definito dal Concilio di Trento. Ma nonostante ciò, parecchi teologi negli ultimi decenni hanno preferito concentrarsi su un concetto solo spirituale di regalità cristologica. Invece Papa Ratti aveva insegnato, certo, che la regalità spirituale è quella principale; tuttavia non è l’unica dimensione dell’azione di Cristo Re. E il Concilio Vaticano II, sebbene con un linguaggio diverso rispetto a quello utilizzato da Pio XI, dice lo stesso.

UN RE CON UN REGNO

Infatti la Costituzione Lumen Gentium 36 insegna che Cristo ha potere universale già qui in terra e che Egli detiene questo potere sino alla fine dei tempi. Inoltre, si insegna che Cristo trasmette questo potere regale partecipandolo ai suoi discepoli, in un duplice senso: da una parte con riferimento alla libertà regale dei credenti, cioè al fatto che i cristiani vincano in se stessi il regno del peccato (e questa è la regalità spirituale di Cristo in noi); ma dall’altra parte, il Vaticano II afferma che i laici cristiani devono condurre anche altri al loro Re. Il Concilio scrive, testualmente: «Il Signore desidera estendere il suo Regno anche per mezzo dei fedeli laici».

Notiamo innanzitutto: l’estensione del Regno non è velleità politica dei cattolici; è desiderio del Signore. In secondo luogo si aggiunge: anche per mezzo dei laici. L’estensione del regno spirituale si opera soprattutto coi mezzi soprannaturali come i Sacramenti e questo viene fatto ad opera soprattutto dei ministri ordinati. Se il concilio dice «e questo anche per mezzo dei fedeli laici», vuol dire che il Signore desidera estendere il suo Regno anche in altro modo rispetto a quello spirituale-sacramentale: vale a dire nel modo proprio dei laici, che il Concilio (riprendendo una espressione di Pio XII) chiama consecratio mundi (LG 34). Dunque anche per il Vaticano II il Regno ha una connotazione principalmente spirituale e soprannaturale, ma ne ha anche un’altra: quella storico-sociale.

I fedeli laici sono identificati come i protagonisti naturali di questo tipo di espansione, come i sacerdoti lo sono della prima. Il Concilio scrive ancora che attraverso i laici il mondo deve essere impregnato dello spirito di Cristo. È chiaramente una terminologia di conquista, anche se di conquista in senso cristiano. Ciò si farà soprattutto attraverso l’opera dei laici nel lavoro, nella tecnica e nella cultura. D’altro canto, simile azione non è autonoma rispetto alla grazia soprannaturale, perché i fedeli laici potranno operare in questo modo solo ed esclusivamente sotto l’influsso della grazia divina. I laici possono estendere il Regno di Cristo nella società solo se il Regno di Cristo è già dominante nel loro cuore. I sacerdoti sono responsabili di immettere questo Regno di Cristo nelle anime e di custodirvelo, con la Parola ed i Sacramenti. In questo senso, il mondo viene conquistato a Cristo dalla grazia: l’ordine soprannaturale raggiunge quello naturale, lo purifica e lo eleva. 

Esiste dunque certamente quella che Pio XII chiamava la «legittima sana laicità dello Stato» (cit. in LG, nota 116), eppure il Vaticano II, così come ha ricordato che senza il Creatore la creatura svanisce, ugualmente ricorda che «in ogni cosa temporale [i laici] devono lasciarsi guidare dalla coscienza cristiana, perché nessuna attività umana, nemmeno temporale, può sottrarsi al dominio di Dio» e di conseguenza «va rigettata la funesta dottrina che pretende di costruire la società senza tenere in alcun conto la religione». Questo equilibrio della dottrina sociale cristiana è espresso anche dalla liturgia nel giorno dell’Epifania. Da una parte, mediante il famoso inno Hostis Herodes impie, si ricorda che Cristo Re permette ai governanti umani di gestire la cosa pubblica con una relativa (non assoluta) autonomia: «Perché temi, Erode, il Signore che viene?Non toglie i regni umani, chi dà il regno dei cieli».

Dall’altra parte, però, la liturgia della medesima solennità ricorda che la sana laicità della cosa pubblica può e deve essere solo relativa e non assoluta; cioè la vera laicità non è il laicismo dell’etsi deus non daretur, perché anche in uno stato moderno Cristo rimane il Re di tutti. Perciò l’inno delle Lodi di Epifania aggiunge: «Non conosce confini nello spazio e nel tempo il suo regno d’amore, di giustizia e di pace». Entrambi gli aspetti sono dunque espressi. Vi è un governo naturale relativamente autonomo: non è vero che l’unica forma di governo per noi accettabile sarebbe una res publica christiana; Erode può continuare ad essere re anche dopo che è nato il vero Re, che non toglie i regni umani perché dà il Regno dei cieli. Ma d’altro canto questo governo è solo relativamente autonomo, perché deve comunque rendere conto a Cristo, Re dei re, dal quale riceve in ultima analisi la propria autorità. È questo il motivo per cui Pio XI aveva insegnato che i governanti non dovevano rifiutare di dare pubblico omaggio a Cristo Re, il quale è vero Legislatore e perciò ha vero potere temporale: legislativo, esecutivo e giudiziario.

Non dobbiamo nasconderci che oggi questi insegnamenti appaiono impossibili da proporre, in un mondo pluralista e multireligioso. Ed è vero che è inutile proporli in questa forma. Però possono e devono essere mantenuti e vissuti per quanto riguarda il loro nucleo veritativo profondo. Da questa dottrina come può oggi scaturire una prassi non utopistica e realizzabile?

Pur non essendo questo il momento di dare linee precise di azione, anche perché per fornire simili indicazioni è necessaria una competenza specifica, si può dire che un grande principio può ispirare indicazioni pratiche concrete, che altri trarranno in maniera più dettagliata. Il Re è Cristo e noi sappiamo e vogliamo che Egli deve regnare anche socialmente, oltre che spiritualmente. Dunque il rapporto Chiesa-mondo deve essere segnato da questa azione sacerdotale e laicale, attraverso cui il Regno di Cristo si espande e nelle anime e nei corpi sociali.

LA VERITA' DA DIFENDERE

Probabilmente una via percorribile per questo consiste nel concentrarsi sul tema della verità. Questo perché lo stesso Cristo che è il Re dell’universo, è anche la Verità in Persona, come ha detto di Sé: io sono la Via, la Verità e la Vita. Senza tralasciare che il tema della verità torna nel Vangelo proprio in un brano ad alto coefficiente politico: il processo di Cristo da parte di Pilato. Anche in quell’occasione, il Cristo Verità sta maestosamente davanti allo scetticismo del procuratore romano che chiede: cos’è la verità? Benedetto XVI nella Caritas in veritate dice che la dottrina sociale della Chiesa è «annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità» (n. 5). Questa dimensione della verità è fondamentale nei nostri rapporti con il mondo.

Un primo modo concreto di espandere nel mondo il regno di Cristo attuando la verità è quello di non idolatrare il mondo, ossia di non soffrire complessi di inferiorità dinanzi ad esso. Accostarsi con tale complesso al mondo implica sempre il volerlo compiacere, per essere da esso accettati. Con tutta umiltà dobbiamo dire: non è principalmente il mondo che ha qualcosa da dare alla Chiesa, ossia al Corpo Mistico di Cristo, bensì piuttosto il contrario. Non è tanto la Chiesa a dover imparare dal mondo quanto il mondo dalla Chiesa, che è Madre e Maestra, Mater et Magistra. Si è mai vista una brava madre che chiede al figlio cosa fare? o una buona maestra che si dichiara incapace di insegnare davanti ai suoi studenti? La verità è che la Chiesa ha da dare e da insegnare al mondo: non abbiamo dunque paura! Siamo umili, certo, consapevoli dei nostri limiti umani. Ma i limiti sono nostri, non di Cristo e della sua verità. Noi non portiamo noi stessi, ma Lui e la sua dottrina; dunque bisogna essere meno impauriti dei poteri mondani e più forti nell’impegno.

Secondo: verità vuole che la Chiesa sappia rimanere ciò che è, ossia ciò che Cristo l’ha fatta: sacramento universale di salvezza. Papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est ha scritto: «È perciò molto importante che l’attività caritativa della Chiesa mantenga tutto il suo splendore e non si dissolva nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante» (n. 31). Si ricorderà poi che Papa Francesco, nella primissima omelia come Pontefice, tenuta ai cardinali il giorno dopo l’elezione, disse che la Chiesa non è una ONG. Per evitare di diventare un’agenzia di servizi, la Chiesa ha bisogno della fede, ossia della dottrina professata, dei sacramenti, della preghiera e della penitenza. Inutile illuderci che cambieremo il mondo senza queste realtà. Se così pensassimo di poter fare, diventeremmo di nuovo pelagiani, negando anche noi la sana reciprocità tra natura e soprannatura.

Terzo: si opera nella verità dicendo la verità, dando testimonianza ad essa, quando è facile e quando non lo è. Non possiamo né dobbiamo mai nascondere la nostra fede: né in famiglia, né sul lavoro, né in politica, né nel mondo culturale o associativo di qualunque genere. Riceviamo il sacramento della Cresima proprio per avere la forza soprannaturale di questo coraggio testimoniante. Romano Guardini ci incoraggia a dire sempre la verità, anche quando questo coraggio ci mettesse in cattiva luce davanti al mondo. Egli dice: «Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza. Di essa non si dice: Tu la puoi dire quando ti piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità; non la devi né ridurre, né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche quando la situazione ti indurrebbe a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda» (Virtù, Brescia 1997, p. 21).

EROI CON UN IDEALE

Si tratta di parole che risuonano nel nostro cuore provocando una certa emozione e suscitando propositi di impegno. Ma ci accorgiamo sempre più di quanto sia oneroso dire la verità e lottare per essa, anche perché spesso noi non vediamo immediatamente l’effetto positivo del nostro coraggio nel parlare. Qui può sorgere in noi un certo scoraggiamento: a che serve dire la verità se quasi nessuno ci ascolta, se nulla cambia? Non è meglio una diplomazia del compromesso, che almeno può ottenere qualcosa? L’esperienza storica dei nostri compromessi ha dimostrato nei fatti che questa logica è perdente. Solo la testimonianza della verità vince, anche se a volte i tempi sono lunghi. Noi non dobbiamo lottare per la verità solo nella misura in cui vediamo che gli altri ci ascoltano o ci apprezzano. Noi dobbiamo lottare per la verità perché la amiamo e sappiamo di doverla trasmettere integra ai nostri posteri, così come ci è stata trasmessa dai nostri predecessori. 

Questo comporta un ultimo aspetto e cioè che per la verità e per la diffusione del Regno di Cristo noi dobbiamo essere disposti a soffrire. A soffrire l’incomprensione, a volte anche all’interno della Chiesa, e più spesso nella società o nella famiglia. E dobbiamo essere disposti a sacrificare anche qualcosa di notevole, come una brillante carriera, ecclesiastica o civile, per amore della verità. La verità merita tali sacrifici perché la verità rende liberi. Parlando delle associazioni cattoliche il cardinale Giuseppe Siri, intervistato, alla domanda: «Qual è, secondo lei, in un tempo di pluralità di esperienze, il segreto per la formazione del laicato?», rispondeva: «Di formarlo interiormente, non solo esternamente, e di abituarlo al sacrificio e al coraggio. Le associazioni cattoliche, se non hanno combattività, non valgono niente. Vivono, anzi vivacchiano per se stesse» (cit. in R. Spiazzi [ed.], Il Cardinale Giuseppe Siri, Bologna 1990, p. 116). La nostra vita merita più di questo. La vita di cattolici, di uomini e donne conquistati da Cristo Redentore, è una vita degna di essere vissuta più intensamente e coraggiosamente, che non essere vivacchiata galleggiando sul non-senso quotidiano della società contemporanea. 

Concludiamo richiamando il grande successo che negli ultimi tempi stanno riscuotendo i film che rappresentano storie di lotta tra il bene il male, quali Guerre stellari, Il Signore degli Anelli o Le Cronache di Narnia. A parte gli effetti speciali e alcuni aspetti pur criticabili, questi film attraggono per un motivo profondo: essi tramettono una visione eroica, una visione epica della vita. La vita, in questi film, non è presentata solo come la ricerca del piccolo piacere personale, ma come un bene da spendere per un grande ideale, perché il male sia sconfitto e il bene trionfi. Se è necessario, gli eroi di queste saghe sono disposti anche a dare la vita perché questo ideale diventi realtà. La fede cristiana ci spinge a vivere così, con un grande ideale e grandi orizzonti. C’è da augurarsi che possiamo vivere in questo modo: non inseguendo la piccola speranza individuale, che alla fine delude sempre, ma avendo il coraggio di seguire il grande ideale del Vangelo e di dare per esso tutta la nostra vita.

(3 - FINE)

(Già pubblicato: 1- Chiesa e mondo: rapporto necessario e di Grazia; 2- Immersi in un mondo da salvare)

IL VIDEO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DI DON GAGLIARDI A MILANO